«Siamo sicuri di comprendere l’universo meglio degli animali? Spesso comprendere mi appare come giocare con un cubo di Rubik. Una volta che tutti i cubi sono al loro posto, nel minor tempo possibile, ogni cosa è chiara. Questo ha un senso se si vive dentro a un cubo di Rubik, altrimenti…». A parlare è Elizabeth Costello, l’indimenticabile protagonista di svariati romanzi di J.M Coetzee, nonché indefessa portavoce della questione animale, in particolare ne La vita degli animali, dove Costello rimarca la necessità di spostarsi da una visione antropocentrica e rinunciare una volta per tutte alla pretesa di assimilare l’altro da sé.

È QUELLO CHE FA Joy Sorman nel romanzo La pelle dell’orso (Alter ego, trad. Valentina Maini, pp. 152, euro 15) quando sceglie di affidare la voce narrante a una creatura ibrida, nata dall’unione di una donna e un orso. Desolante e spietato, ma anche commuovente, il libro di Sorman ricorda per certi versi «Ballerina», il racconto che apre Delitti bestiali di Patricia Highsmith, in cui l’elefante protagonista enumera le violenze perpetrate dagli esseri umani; ma se Ballerina ha ancora la forza di ribellarsi, Orso sconta sulla propria pelle l’insensatezza e la ferocia del comportamento umano. Prima fenomeno da baraccone, poi animale da combattimento e da circo, finisce nella gabbia di uno zoo. È proprio in questo luogo di marginalizzazione estrema, in cui gli animali «sono stati immunizzati dall’incontro perché nulla può occupare un luogo centrale nella loro attenzione» (John Berger, Perché guardiamo gli animali?) che accade qualcosa di inaudito: «Ed è allora che alzando la testa verso il fulgido sole di un indomani nevoso la scorgo». Orso si accorge di essere osservato da una misteriosa visitatrice e ricambia lo sguardo. È uno sguardo d’amore che ripristina l’ormai estinta complicità tra l’animale e l’umano. Non è un caso che a innescare questo processo sia una donna. Lo sguardo femminile, afferma Orso, riferendosi alle figure femminili del circo, «è premuroso e neutro, i loro sorrisi e le loro parole gentili sono senza pietà e apprensione».

UN INCONTRO così speciale è al centro di altri tre libri, tutti curiosamente e significativamente pubblicati negli ultimi anni: si tratta di Orso di Marian Engel (del 1975 ma riedito nel 2019 da La nuova frontiera, trad. Veronica Raimo), Credere allo spirito selvaggio di Nastassja Martin (Bompiani 2021), La donna che divenne l’orso di Francesca Matteoni (Edizioni Volatili 2021); peraltro tutti scritti e tradotti da donne. Le somiglianze tra Orso e La pelle dell’orso, là dove si descrive l’incontro amoroso, sono talmente evidenti da indurre a pensare che Sorman abbia voluto rendere omaggio a Engel.
I libri citati, oltre a dialogare tra di loro, sollevano una questione che, seguendo anche quanto ha scritto Matteoni, è «personale» perché riguarda «come decidiamo di trattare l’altro e di recuperare noi stessi nell’altro».

SULLA SCIA del pensiero creaturale di Ortese, Colette e Lispector, Sorman recupera quella sapienza tutta femminile di rapportarsi al mondo animale e di prendersene cura, che ci ricorda quanto sia prezioso il nostro legame con le origini: «Tu orso tu sei tutto ciò che abbiamo abbandonato, sei il nostro antenato disperso tra le pieghe dei secoli, noi non siamo altro che la tua versione deteriorata e la tua ultima progenie, tu sei una prova la prova che siamo nati dal bosco dall’acqua dai laghi e dal lichene, voi bestie voi avete indicato la strada da seguire innescato per sempre il processo di vita».