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Sgrammatica dell’attesa: dai diari di guerra

Reduci di guerra italiani rientrano dalla RussiaReduci di guerra italiani rientrano dalla Russia

Vicende belliche Il desiderio di farsi forza e reagire alla tristezza dei campi di internamento, nella Grande guerra, portò all’invenzione dei «Giornali prigionieri», documentati da Giuseppe Ferraro in un saggio Donzelli

Pubblicato 9 giorni faEdizione del 29 settembre 2024

Otto milioni e mezzo di soldati subirono la prigionia durante la prima guerra mondiale. Metà di loro trascorsero mesi o anni nei campi dell’Impero austro-ungarico e in Germania. Almeno seicentomila erano italiani: e centomila furono seppelliti in quei campi.

Nel 1921 il grande filologo romanzo Leo Spitzer, maestro della critica stilistica europea, che per la sua straordinaria conoscenza dell’italiano e dei dialetti era diventato coordinatore della censura postale austriaca, pubblicò un libro fondamentale, tradotto dal Saggiatore nel 1976 e poi, in edizione arricchita, nel 2016: Lettere di prigionieri di guerra italiani, 1915-1918, a cura di Lorenzo Renzi, traduzione di Renato Solmi. In quei fogli miserabili, ponti di carta verso il mondo e la vita, la guerra diventava narrazione, scrittura, nostalgia per la casa lontana, sulla punta delle matite strette da quei corpi luridi di fango e mangiati dalla fatica dalla fame dal freddo, presi prigionieri prima e dopo Caporetto: frasi sgrammaticate, balbuzienti, invase dallo sconforto e dalla malinconia. Oltretutto, come notava finemente Renzi, «le lettere raccolte da Spitzer […] non sono lettere di soldati, come quelle di gran parte delle raccolte posteriori, ma di soldati fatti prigionieri. Tra questi, i reietti e disprezzati: i disertori, quelli che si erano consegnati al nemico senza combattere».

Proprio perché esclusi in quanto testimoni degli errori commessi dai comandi militari, e per questo abbandonati dallo Stato italiano, quei non-eroi, quei non-morti rimasti inutilmente vivi, si asserragliarono nei campi come in un Fort Apache, e lì ricostruirono una piccola, autonoma Società di autodifesa. Scrissero a casa, in maniera frenetica: si calcola che solo gli italiani abbiano inviato cinque miliardi di lettere dalla prigionia. Ma non si limitarono a questo: il desiderio di proteggersi e di accendere lo spirito nell’agghiacciante monotonia di un’esistenza ridotta a pochi gesti ripetitivi, condussero all’invenzione di uno degli strumenti più incredibili, di cui si è parlato troppo poco nella ricostruzione delle vicende belliche: il giornale di prigionia.

Scritti a mano o ciclostilati, o perfino stampati, ma sempre impaginati con straordinaria efficacia «tipografica», illustrati con vignette ironiche ed eleganti disegni, i giornali di prigionia rappresentano, come illustra con documentazione vasta e di prima mano Giuseppe Ferraro  in Giornali prigionieri La stampa di prigionia durante la Grande guerra, Donzelli, pp. 201, € 25,00, una delle più importanti «strategie di sopravvivenza» nel Lager. Ogni campo aveva il suo giornale, con titoli che talora hanno dell’incredibile: «Gazzettino di Wonbaraccopoli» e «L’Attesa» nel campo di Dunaszerdahely in Ungheria; «L’Eco del prigioniero», «L’Eco caricaturista», «La Scintilla», «La Scintilla caricaturista» a Sigmundsherberg in Bassa Austria; «Il Surrogato» e «Macchiette in prigionia» a Theresienstadt.

I prigionieri, realizzando i «loro» giornali, conquistavano «una dimensione più dinamica rispetto a quella oziosa e stagnante della vita di campo sia dal punto di vista fisico che mentale»: «uno svago intellettuale per le nostre giovani menti», come scrisse un certo Rolland aprendo il primo numero dell’«Eco del prigioniero» il giorno di Natale del 1916, con un articolo dal titolo pieno di illusione e di progettualità: Incominciando.

Almeno in un caso personalità di grande rilievo parteciparono a questo serio e impegnativo gioco di formazione di una «piccola Società». Si tratta di «Il Surrogato», la cui testata, come rileva con intelligenza Ferraro, «era evocativa della condizione di prigionia: il giornale era inteso come un surrogato della libertà persa, di quella vita ordinaria che si cercava di riprodurre nei campi di prigionia». Quel giornale ebbe due direttori: «Dante Calabri del Foro di Bologna e il professor Augusto Monti del Regio liceo di Sondrio». Tornato a Torino dal campo Augusto Monti divenne amico di Antonio Gramsci e di Piero Gobetti, e cominciò a collaborare alle riviste che quel giovanissimo genio aveva fondato. Insegnò poi al Liceo «Massimo D’Azeglio», ed ebbe fra gli allievi Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Giancarlo Pajetta, Vittorio Foa, Massimo Mila. Intenerisce pensare al Maestro dei migliori intellettuali italiani che, rinchiuso prima a Mauthausen e poi a Theresienstadt, dirige un giornale di prigionia, trasmettendo a quella povera gente ammucchiata nel fango e nella sofferenza un senso umanistico della vita, un progetto sociale e politico fondato sulla comunicazione.

Attraverso i giornali e le altre attività di cultura il campo diventa un’officina di attesa e di speranza, un laboratorio sociale: viene percepito «come una comunità militare, ma anche come un vero e proprio municipio, con propri statuti, simboli, attività da svolgere e organizzare, regole ed esigenze». I giornali di prigionia nascono proprio dalla «necessità di sognare» e di tornare a sorridere, anche giocando con il dolore, la solitudine, la fame, come fa «Ellegi del 2° Reparto», un veneto simpatico e ridanciano su «L’Attesa» del 25 dicembre 1917, invitando la sua Nina a raggiungerlo a Dunaszerdahely, «per gustare pranzi, che manco i santi su nei cieli!». Ed essendo Natale, «Ellegi» offre alla sua bella un menù tipico del loro paese: «Nina, te piase elbacalà en padela, / elbacalà dal bel color d’argento, / con tanto pocio e le scoletedrento? / Nina, te piase elbacalà en padela?».

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