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Sfrigolio di un lapis sul foglio e impasto luminoso del colore: cento anni di FILA

Sfrigolio di un lapis sul foglio e impasto luminoso del colore: cento anni di FILAStorica «vignetta» su un volantino pubblicitario della FILA, 1956

Eccellenze italiane Matite in grafite, pastelli Giotto, Pongo alla Matisse, DAS... La popolare ditta fiorentina esalta in un libro «d’artista» la (perduta?) materialità dello scrivere, del disegnare, del tracciare, del toccare

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 20 dicembre 2020

Cent’anni di FILA è il primo dei tanti calembour dei quali è disseminato questo vivacissimo volume (1920-2020 Cent’anni di FILA Un secolo di colore, di lapis ed affini, Corraini, pp. 240, e 28,00) ideato da Valerio Millefoglie e Andrea Antinori per celebrare il centenario della famosa ditta il cui nome sta, appunto, per Fabbrica Italiana Lapis e Affini. Fondata a Firenze il 23 giugno del 1920, uscì dalla testa dei suoi padri già compiuta, come una Minerva con una matita in luogo dell’asta. Infatti, fin dal 1921, da quell’Affini che campeggiava nel titolo era spiccata tutta una fragorosa varietà di matite e pastelli colorati: v’erano le matite in grafite, come la Orion e la Selecta, v’erano le matite copiative, in tre linee per ordine di qualità e di prezzo, Turandot, Tosca e Fiorenza, v’erano poi quelle per stenografi e quelle per falegnami e v’era, infine, una vasta scelta d’articoli di cancelleria come astucci e salvapunte. La ditta doveva ben presto ampliarsi senza perdere nulla del suo carattere originario, tant’è che il logo del giglio sta ancora lì, così come l’immagine di Giotto mentre ritrae una delle sue pecore sotto lo sguardo sorpreso di Cimabue, come ce l’ha tramandata Vasari nelle Vite.
Questo libro non si limita, tuttavia, a ripercorrerne la storia; nel proposito degli autori v’era, certo, questo movente affettuoso ma anche quello di fare un meta-libro, un libro FILA, che ne contenesse l’estro, la grafica, e qualche granello almeno dell’anima, come lascia intendere quella matita conficcata nel dorso della sovracoperta tanto somigliante alla freccia d’un emblema araldico. A suo modo, dunque, Cent’anni di FILA è un libro d’artista (ma anche un libro-saggio di tutto quello che può farsi con una matita), senza però il sussiego che in genere si accompagna a questo tipo, sempre più raro a dire il vero, di pubblicazioni. Non è escluso che voglia motteggiare un po’ i libri commemorativi, con le loro copertine rigide e lapidarie e le loro ridondanti introduzioni, chiuse l’una nell’altra come cerimoniose matrioske, optando, invece, per un abito tipografico fresco e festaiolo. Non si vuol dire che sia un capolavoro dell’arte editoriale, si deve però riconoscere ch’è un volume inventivo e vario e che nessuna delle sue pagine somiglia alla precedente. Ai bei disegni d’Antinori s’alternano le foto di repertorio, le pubblicità, i cataloghi e i manifesti; ma questa osservazione non basta a dir tutto: ciascun foglio è, infatti, una creazione a sé. Insieme fanno un reggimento di lucenti formiche, ciascuna col suo granello personale di storia, dai quali alla fine emerge un disegno lineare, per quanto rutilante e variopinto.
Eppure, la narrazione d’una vicenda aziendale non esaurisce il senso di questo lavoro. Più ancora, scorrendone le pagine, si sente come gli autori abbiano saputo trasmettere la passione della ditta per l’inesauribile facondia del colore, nella sua materalità d’impasto luminoso, fruttifero e ferace. Vi si parla con entusiasmo della grafite, «un materiale che arriva dal ventre della terra» e che «i torchi impastano nei mulini giorno e notte insieme all’argilla», dell’odore del cedro della California, impiegato per la fabbricazione delle matite ch’era «intenso ma anche dolce, piacevole da gustare, non infastidiva la gola», del Pongo, in cui i vivaci colori d’un Matisse si piegano alle più spericolate, borrominesche curvità, e del DAS, che può trovarsi ovunque intorno al mondo «in un bazar di Inuvik, in Canada, alle foci del fiume Mackenzie, in Nuova Zelanda, in Tasmania» perché «puoi imprimere, spostare, mescolare il giallo e il rosso per dar vita all’arancio, affondare le mani nella materia e dire: “Sono io che ho fatto questo”». Nella sezione che raccoglie cento storie «di persone da mondi diversi che, attraverso i nostri strumenti, esprimono la propria creatività trasformandola in progetti» emerge questa qualità germinale del lapis il cui sfrigolio su un foglio di carta o su un pezzetto di legno suscita quelle prime faville dalle quali l’opera ventura prenderà poi l’abbrivio. In ordine sparso: uno scrittore, Andrea Vitali, dice «Le prime stesure dei miei romanzi sono a matita, così come le correzioni finali: in tutti i libri che ho scritto, è stata una matita ad accompagnarmi dalla prima all’ultima parola. Temperandole e guardandole accorciarsi una dopo l’altra, la scrittura assume una consistenza artigianale»; un ebanista, Marco Florio, confessa: «Con il legno scrivo sul legno. I miei bloc-notes in bottega, infatti, sono i pezzi di legno di scarto che uso come piano di appoggio, montati su di un cavalletto. Non mi serve il foglio e così si crea un cortocircuito: con la matita mi appunto sul legno numeri di telefono dei clienti, calcolo le misure dei mobili, faccio delle bozze per schematizzare gli spazi. Amo il contrasto della grafite su legno»; e ancora da una calzolaia, Michela Viviani, apprendiamo: «I miei passi sono sempre gli stessi: inizio dal contorno dei piedi tracciato a matita, prendo le misure per creare la forma, la ricopro di scotch di carta. Sopra disegno tutte le parti della scarpa futura, passo il taglierino lungo le linee per staccare un pezzo alla volta, li riporto sul cartoncino e poi sulla pelle».
Ma di tutte queste testimonianze d’un rapporto materiale con le cose, col legno, col lapis, col foglio, col pastello, che conto si terrà tra qualche decennio, quando la rivoluzione digitale, come s’usa dire, avrà archiviato come ciarpame museale i vecchi strumenti? Oggi esistono lavagne elettroniche e touch screen e, tuttavia, in questi mezzi svaporati e veloci, invece della leggerezza che vi trovava Calvino, sentiamo soltanto una tetra profezia di morte. Piero Camporesi nel Brodo indiano aveva raccontato come il senso dell’olfatto si fosse andato via via atrofizzando coll’evolversi della società europea. Toccherà adesso al tatto? Un poema come l’Adone del Cavalier Marino sarebbe oggi dimidiato e ristretto al solo senso della vista? Con la sua matita a trafiggerne il dorso, forandone lo spazio, Cent’anni di Fila è prima di tutto un oggetto che non può ridursi alla vacua inconsistenza d’un file elettronico!

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