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Sette sperimentatori dell’indeterminato fotografico

Sette sperimentatori dell’indeterminato fotograficoPasquale De Antonis, "Senza titolo D", 1957, Torino, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

Alla GAM di Torino, "Forma / Informe. La fase non oggettiva nella fotografia italiana 1935-1958", a cura di Antonella Russo Grignani, Veronesi, Branzi, Cavalli, Monti, Migliori, De Antonis: la mostra esplora varie opzioni di una ricerca fotografica che brucia, erodendo ogni figuratività fino all’«informale», la pur grande tradizione otto-novecentesca

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 20 settembre 2020
Paolo Monti, “Riflesso n. 1”, 1949, Milano, Civico Archivio Fotografico

 

La mostra Forma / Informe La fase non oggettiva nella fotografia italiana 1935-1958, alla Galleria di Arte Moderna di Torino fino all’8 novembre, è un progetto di Antonella Russo, storica della fotografia di riconosciuta rilevanza e autrice di numerosi testi su questi argomenti: ricordo solo la Storia culturale della fotografia italiana (Einaudi, 2011). Già il titolo della mostra è significativo per originalità del taglio proposto e per la cronologia adottata che scavalca la periodizzazione corrente al cui centro c’è il realismo e il neorealismo, con forti ricadute nel cinema a cavallo della guerra.
Gli autori prescelti sono sette e ciascuno espressione delle molte sfaccettature delle culture fotografiche in Italia. Milano, Bologna, Firenze, Roma e anche la piccola Senigallia sono gli incubatori di questa ricerca e segnano il passaggio dall’immagine formale – nel senso di studio di forme nuove, non figurative e non oggettive – a una definita già «informale» (ma del tutto diverso da quello pittorico) che abrade ogni figuratività e ogni rappresentazione tipica della pur grande tradizione Otto-Novecento della fotografia italiana: in mostra scompare del tutto il «reale». La Wunderkammer della GAM ha un allestimento sobrio: lo spazio è segnato dal grigio delle pareti e dal chiaro di soffitto e pavimento. Sette sezioni con 35 foto. Al centro di questo corridoio le bacheche in cui si vedono libri e cataloghi rari.
A cominciare da Franco Grignani (1908-’99), la cui opera nasce anche dalla psicologia della forma, la Gestalt, che era stato Gillo Dorfles a introdurre in quegli anni. La luce spennellata sul viso (1954) nasce da un’armonia prestabilita, come un critico raffinato come Roscioni disse del Pasticciaccio di Gadda: in questa dis-armonia prestabilita l’immagine cancella ogni figuratività, ogni rappresentazione del «reale». Nascono le dissonanze percettive, le vibrazioni visive e le tensioni, le rotazioni formali: una tassonomia originale esito di esperimenti personali. Come si vede esemplarmente nelle impressioni di una Folla (1954).
Luigi Veronesi (1908-’88) è una grande figura di sperimentatore in ogni senso. Era fratello minore di Giulia, critica d’arte di rango alla quale si devono i preziosi due volumi dedicati all’opera del grande Edoardo Persico (insostituibili, malgrado una ristampa da dimenticare edita da Aragno). Non a caso Luigi Veronesi aveva esordito su «Casabella» come grafico chiamato da Persico e Giuseppe Pagano, la cui figura aleggia in questa mostra in molte foto. Mi par strano che la curatrice non lo ricordi. I fotogrammi di Veronesi partono dal ’35 e giungono fino agli anni ottanta: magnifici i Senza titolo (1948). Sulla linea di Pagano esemplare l’opera del fiorentino Piergiorgio Branzi (1928), in particolare quella testimoniata da Forio d’Ischia (1953) e dalla splendida serie inedita di Montmartre (1954). Veronesi ebbi la fortuna di conoscerlo ed era un uomo mite di acuta intelligenza. Conosceva alla perfezione la cerchia del Bauhaus – in primis Lázsló Moholy-Nagy – e la sua opera ne fu segnata nella grafica e nella fotografia. Sperimentò il fotogramma, ma di fatto lo reiventò. Nelle foto scelte si vede perfettamente come immagini astratte possono alludere, ma solo alludere, a forme concrete.
Giuseppe Cavalli (1904-’61) parte da Senigallia e muove dalle indagini sul luminismo per poi sperimentare il grafismo ottico. La pallina (1949), Il muretto (1950) ne sono felice testimonianza. Cavalli fu il maggiore teorico della fotografia del dopoguerra, quando redasse un programma del nuovo Bello fotografico: nel Manifesto del Gruppo «La Bussola» prese di mira la fotografia di «cronaca documentaria che abbia pretese di artisticità». Fu grande ritrattista legato a molti artisti romani e scrittori di vaglia. Cavalli fu sempre vòlto alla dissoluzione estrema della forma.
Paolo Monti (1908-’82) opera quando esplode l’informale, ma le sue forme partono dalle «scomposizioni» che hanno ancora una connotazione astratta di grande finezza. Con Riflessi (1949), Superfici (1950), Roccia acqua (1956 post-1962 ante) il suo linguaggio si esprime al meglio. Diverrà poi grande fotografo di architettura a partire da Bologna.
Nella città felsìnea lavora anche Nino Migliori (1926) la cui opera segna il limite estremo della forma: come si vede già nelle «ossidazioni» (1948). È amico di pittori tra cui Vedova, sperimenta un informe fotografico che si crea da sé, in maniera imprevedibile: la sua camera oscura è l’alambicco della sua creatività, servendosi della luce artificiale di una lampadina, di una fiamma o di quella naturale del sole. Così studia la scansione dei colori dal giallo al verde e la privilegiata tonalità dei grigi: rivive con lui una secolare tradizione che risale a Goethe. Artista colto dunque del tutto consapevole nell’usare la tastiera del suo molteplice talento.
Pasquale De Antonis (1908-2001), romano, esponeva nel 1951 una serie di sue personali esperienze alla Galleria L’Obelisco di Roma, centro importante di aggregazione di artisti e non solo italiani. Forme che ignorano la prigione dello spazio a tre dimensioni, una ricerca parallela a quella di artisti delle nuove avanguardie del dopoguerra, con calibrato dosaggio di ottica fotografica e uno studio di incidenze e rifrazioni provenienti da fonti luminose multiple. Come si vede nelle «scie luminose», che travalicano il foglio dell’immagine.
Ho adottato la scansione dei medaglioni o meglio dei «ritratti» di ciascuno fotografo, ma qualificarli tali è del tutto improprio. La mostra Forma / Informe può essere definita, come dice Antonella Russo, «il viaggio al termine della forma» della fotografia italiana del dopoguerra. Una stagione densa di significati e di valori fino ad oggi largamente trascurata: segnata dalla tendenza alla dispersione della forma nel cuore della fotografia italiana. Ma un tale insieme volge verso un’indeterminatezza che alberga nell’immagine e così trascina ogni forma verso l’informe dissipazione formale, proprio come nell’eterno conflitto tra luce e ombra, chiarore e oscurità.
La mostra è accompagnata da un catalogo GAM-Silvana Editoriale di 127 pagine, con testi bilingue, con riprodotte tutte le foto esposte, cronologia ragionata dei principali eventi, mostre e pubblicazioni fotografici dalla metà degli anni trenta a fine anni cinquanta. Il testo della Russo non può patire l’oltraggio del surrogato che mi guarderò bene dal tentare. Non amo i recensori che fanno il verso ai recensiti. A mio modo ho provato a capire e mi auguro che non abbia frainteso il senso della densa e colta Premessa.

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