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Sesto, ovvero lo stato del Pd

Bene ha fatto il manifesto a dare il giusto risalto a quanto accaduto a Sesto Fiorentino: e non solo per l’indubbio valore simbolico che riveste questo comune, uno dei primi […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 25 luglio 2015

Bene ha fatto il manifesto a dare il giusto risalto a quanto accaduto a Sesto Fiorentino: e non solo per l’indubbio valore simbolico che riveste questo comune, uno dei primi in Italia, alla fine dell’Ottocento, ad avere un’amministrazione socialista, oggetto di una delle prime ricerche di Ernesto Ragionieri, oltre sessant’anni fa. E poi da sempre, per tutta la storia repubblicana, punto di forza del Pci.

La sfiducia che la maggioranza del gruppo consiliare del Pd ha votato nei confronti della sindaco, figura di primo piano dell’entourage renziano fiorentino, non è l’ennesimo episodio di una guerriglia interna al Pd, o l’ennesimo scontro tra gruppi di potere locale: è il sintomo di una progressiva implosione del partito, di un costante deterioramento del suo «stato». Il problema è che, di fronte a questa situazione, appare sempre più evidente come il renzismo non abbia nemmeno gli strumenti culturali per capire veramente cosa sta accadendo.
In genere, anche in Toscana, in questi giorni, se si guardano le reazioni del gruppo dirigente renziano, si leggono dichiarazioni sdegnate che richiamano al senso della disciplina, della coesione, al senso di responsabilità, al «modo con cui si sta in un partito». Ma colpisce soprattutto un dato: l’appello al principio di maggioranza. Ovvero, si dice alle minoranze: siete minoranza, dovete adeguarvi, rassegnatevi (e sottinteso: se non vi piace, allora andate via).
A parte un piccolo dettaglio (a Sesto, è stata la maggioranza del gruppo consiliare a sfiduciare il sindaco), questo modo di concepire la democrazia denota un vizio radicale, un limite profondo di cultura politica che appare ben difficile da sanare.

Occorre chiedersi: perché i normalissimi scontri di idee, e anche di potere, che sono fisiologici nella vita di un partito, nel Pd si stanno rivelando così laceranti? La risposta che si può dare è netta: perché il Pd non è più un partito che sia in grado di alimentare e coltivare, tra militanti e dirigenti, un qualche senso di appartenenza ad un comune progetto politico. In questo senso, anzi, se diamo una definizione rigorosa di partito, il Pd non è più, propriamente, un partito.
Vale per un partito quanto vale, in grande, per una democrazia costituzionale: i cittadini si sentono obbligati moralmente (e non per un vincolo legale) a rispettare le leggi, anche quando non le condividono, se sentono e sanno che il processo decisionale che ha portato a quelle leggi è frutto di una procedura democratica e inclusiva, nel corso della quale essi, direttamente o indirettamente, hanno avuto comunque modo di esprimere la propria opinione e cercare di farla pesare. È un principio basilare di legittimazione democratica, questo, che presuppone un riconoscersi reciproco dei cittadini attorno ad alcuni valori politici e costituzionali comuni. E i deficit di legittimità che tanto affliggono le nostre democrazie nascono appunto dall’insufficiente attivazione di questo circuito democratico, in cui conta molto anche la possibilità di svolgere una discussione pubblica che sia in grado e si proponga di influenzare le decisioni.
Per un partito, il discorso è diverso, ma la logica è analoga: per un partito, occorre una cultura di sfondo che accomuni chi ha scelto di farne parte, una cultura politica condivisa che alimenti un senso di identificazione e appartenenza. Solo così, un partito può tenersi insieme, anche quando, come è prevedibile e fisiologico, vi siano forti dissensi o disaccordi sulle strategie da seguire e le politiche da condurre. Certo, il ricorso al principio di maggioranza, ad un certo punto, è inevitabile: ad una conclusione, per quanto sempre reversibile, occorre comunque giungere. Ma contano molto, e in modo decisivo, le procedure attraverso cui vi si giunge, la loro legittimità. La democrazia non è mai, non può essere soltanto l’applicazione del principio di maggioranza. O meglio, se ciò accade, siamo allora di fronte ad una visione impoverita e ad una pratica scheletrica della democrazia.

Ora, tornando al Pd, la cultura dominante è quella che vede la selezione della leadership (a cascata, quella nazionale e quella locale) come mera autorizzazione al comando. Le primarie, così come sono state concepite e praticate, anche per la formazione degli organismi dirigenti, sono lo strumento di una investitura plebiscitaria: avvenuta la quale, non resta che affidarsi agli eletti. Non mancano certo le discussioni, tutti dicono quello che vogliono, ma questa libertà di parola (e, spesso, di pura chiacchiera) è del tutto ininfluente, sganciata dai veri circuiti decisionali. Al massimo, in qualche caso, si contratta. Ma in genere l’ideologia renziana, – che si è diffusa capillarmente nel Pd – mostra insofferenza verso tutto ciò che assomigli ad un qualche confronto di idee, prima che una decisione sia assunta. E, spesso, a livello locale, tutto ciò porta ad uno stile dirigistico e decisionistico, e ad atteggiamenti sbrigativi e arroganti. Renzi trasmette costantemente un senso di profondo fastidio per tutto ciò che possa minimamente richiamare all’idea della mediazione. Ma la politica democratica è mediazione, è fatta di equilibri mutevoli tra le forze, di pesi e contrappesi nei poteri e nelle istituzioni. E questo vale anche per i partiti.
Mancando dunque una cultura di sfondo condivisa e questo senso della politica democratica, la vita interna del Pd è inevitabilmente sottoposta a una durissima tensione, ed ogni motivo di scontro o di dissenso diviene ingovernabile (o regolato provvisoriamente soltanto attraverso un qualche compromesso di potere). La brillante idea originaria del partito post-ideologico, fondato sulla mera convergenza programmatica (sulle politiche, non su un’idea politica), sta dando oggi tutti i suoi frutti avvelenati. E a poco valgono, a questo punto, e anzi risuonano grotteschi, i richiami alla disciplina di partito. La lealtà presuppone un orizzonte di idee condiviso: perché è solo così, anche quando dissento e sono in minoranza, che posso continuare a sentirmi parte di un progetto comune.

Qualche settimana fa, è capitato a chi scrive, in qualità di esperto di analisi elettorali, di essere invitato ad un dibattito sull’esito delle elezioni regionali, organizzato da alcuni circoli del Pd fiorentino, un dibattito a cui partecipavano anche esponenti del partito, di diversa collocazione. Ebbene, mentre la discussione tra i dirigenti si svolgeva in tono aspramente polemico ma in forme civili, è stato drammatico assistere agli interventi dei militanti presenti: un diffuso senso di rancore e di risentimento reciproco; da una parte, il richiamo scostante al principio di maggioranza («avete perso, cosa volete? ora comandiamo noi») e dall’altra, un senso di impotenza e di frustrazione, la sensazione di essere stati espropriati della propria storia e della propria memoria. Quella sera ho toccato con mano che il Pd, in quanto partito, è finito. Potrà certo continuare a vivere, e magari a mietere successi, qualcosa che si chiamerà Pd; ma sarà un’altra cosa, è già un’altra cosa.

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