Sessantacinque centimetri: magia
Dalla baguette alla bacchetta magica Il fascino dello sfilatino francese si perde tra pratiche magiche, nella notte dei tempi...
Dalla baguette alla bacchetta magica Il fascino dello sfilatino francese si perde tra pratiche magiche, nella notte dei tempi...
Come andare a Parigi, o in altro posto della Francia, senza imbattersi nella classica scena di un passante che porta sottobraccio, avvolta nella carta color ocra, la tipica baguette? La ritroveremo nei nostri pasti ai bistrot, o come panino da viaggio, sempre presente nella cultura culinaria di oltralpe. Esiste naturalmente un corrispondente italico della baguette nello sfilatino che, però, a differenza di questa, non ha le stesse regole canoniche: non è, per la precisione, necessariamente lungo sessantacinque centimetri. Certo questo è dovuto al genio italico, più permeato di esprit de finesse che di géométrie, come avrebbe detto Pascal, ma tant’è: la baguette riconosciuta dall’Unesco come patrimonio dell’umanità deve avere quella misura.
La baguette ha una storia relativamente recente, nell’800, legata a diversi fattori che hanno portato questa specifica forma di pane a diventare un simbolo tanto radicato nella cultura francese. Le sue origini mettono insieme antropologia, economia e storia militare. In principio, infatti, per quanto concerne il suo uso militare, questo sembra dovuto alla possibilità che la sua forma allungata si inserisse bene negli zaini dei soldati napoleonici. L’antropologia o la sociologia, invece, ci narrano di un pane che potesse essere spezzato con le mani nude, senza bisogno di coltello, e che questo abbia salvato molte vite che, invece, sarebbero morte nelle risse tra gruppi provenienti da regioni differenti, come ad esempio avveniva tra i minatori o tra gli operai che scavavano i tunnel per le prime linee della metropolitana parigina. Una origine ulteriore, collegata alle prime due, ci dice che la baguette è stata concepita in quella forma poiché è possibile lievitarla e cuocerla in tempi relativamente brevi, evitando così lo sfruttamento dei panettieri che, invece, si dovevano svegliare a notte fonda per cuocere altri tipi di pane quotidiano. A questo proposito è interessante notare come Marx paragonasse i formai ai minatori in quanto a sfruttamento chiamandoli «minatori bianchi».
Dalla baguette alla bacchetta magica
Ma questo livello storico culinario, non spiega certo il fascino della baguette, l’attrazione che spinge a considerarla sempre e comunque un oggetto affascinante, pur nella sua estrema semplicità. Se attira la nostra attenzione è anche perché in essa, ed attraverso di essa, sopravvive e si manifesta un oggetto molto più arcano e potente, che il nome stesso evoca chiaramente: la bacchetta magica.
La storia di questo strumento catalizzatore di energie di diversa provenienza, è antica quanto quella dell’umanità stessa. La prima analogia tra la baguette e la bacchetta magica è, appunto, nella forma ma, ancora più significativa, nella lunghezza: i magi che andranno alla ricerca del Salvatore seguendo il presagio della stella cometa erano, infatti, nel mondo antico i sacerdoti della religione zoroastriana, nominati anche da Platone nell’Alchibiade maggiore (122 A): «A quattordici anni il principe viene affidato ai pedagoghi reali . Di questi il primo gli insegna la magia di Zoroastro, e l’arte di regnare». Questi Magi, cioè Maghi, avevano come simbolo e operatore del loro potere magico, il barsom (o baresman), composto da un fascio di ramoscelli, di tamerici o melograno, della lunghezza di un cubito, cioè di un braccio che, guarda caso, è di circa 65 centimetri. Esso era, dunque, il veicolo attraverso il quale i principii e i poteri archetipici manifestavano la loro presenza e potevano così essere incanalati verso una persona, in questo caso il principe.
Melograno e sfera infinita
Interessante la composizione della bacchetta magica zoroastriana perché alcuni dei suoi elementi hanno un significato simbolico, ma anche operativo trasmutativo, molto profondo, in particolare il melograno. Nei testi alchemici più antichi, infatti, troviamo spesso evocato questo frutto, sia a causa del colore del succo, che assomiglia a quello del sangue, il succo della via, sia a causa della sua struttura fatta di piccoli chicchi, ognuno diverso l’uno dall’altro ma capaci, «secondo natura», di adattare forma a quella di tutti gli altri sino a formare, pur senza perdere la loro identità, una sfera perfetta, da sempre il solido che si riferisce alla divinità: «Dio è un sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo», si dice nel Libro dei XXIV Filosofi.
Testo enigmatico, che raccoglie le opinioni di non ben specificati ventiquattro filosofi riuniti per esprimere la loro opinione attraverso aforismi sulla natura del divino, appare per la prima volta in forma compiuta nel XII secolo, pur rifacendosi, i suoi ignoti autori, ad ascendenze antichissime, come quelle che ne attribuiscono una parte ad Ermete Trismegisto, a Platone ed ai presocratici. Anche qui le corrispondenze ermetiche appaiono piuttosto chiare derivando la pratica alchemica dalla famosa Tavola Smeraldina attribuita proprio ad Ermete Trismegisto: «Ciò che è in alto è come ciò che è in basso per il potere dell’Uno».
Caratteristica del testo dei XXIV filosofi è la comparsa del metodo assiomatico in teologia, una modalità di pensiero che troviamo dapprima nel commento di Gilberto Porretano al De hebdomadibus di Severino Boezio, ripreso proprio da quell’Alano di Lille nel suo Regulae celestis iuris più volte citato da Borges nel suo Aleph, e nell’Ars fidei catholicae di Nicola di Amiens.
Le ventiquattro definizioni che compongono il libro vogliono dunque illustrare lo spettro possibile delle condizioni che conducono la mente umana a tradurre in concetti o in immagini l’idea noetica del divino. Ognuna è poi seguita da un commento che la illustra e la specifica. L’impostazione della nostra affermazione, sulla divinità come sfera infinita, la seconda nel libro, è decisamente di stampo neoplatonico, come si conviene in quegli anni ad un testo ispirato ad un neoplatonismo cristianizzato, cioè a concetti che cercano nella filosofia di Platone i presupposti della seguente rivelazione cristiana, quasi che il pensiero del filosofo greco fosse una forma di profezia secolare.
Il centro teologico dell’affermazione in oggetto è quello che viene chiamato «emanatismo» cioè l’idea che il mondo sia una emanazione divina. Per questo l’ascendenza platonica del testo può dirsi, a ben vedere, racchiusa proprio nella sentenza di cui stiamo parlando. Qui, infatti, non troviamo nessuna idea strettamente religiosa, ma solo una considerazione ontologica sulla natura stessa di Dio.
E dunque la Sphera è infinita: il commento ci dice che la Prima Causa è ovunque (ubique) e che essa al tempo stesso trascende ogni determinazione spaziale (supra, ubi et extra). Il centro è ovunque e il pensiero non può comprenderlo (nulla habens in anima dimensionem) perché illimitata è l’estensione della sua dimensione (sine dimensione). Qui ritornano le parole di Dante nella chiusura della Commedia, l’impossibilità logica di esprimere l’inesprimibile, di racchiudere l’infinito senza dimensione (totus sine dimensione, et etiam dimensionis infinitae), nel finito delle parole, seppur usate come allusioni e metafore.
Tornando ora al melograno, non a caso anche in alcune scuole iniziatiche tradizionali, come la Libera Muratoria, esso è un simbolo centrale nel percorso di consapevolezza del proprio essere individuale all’interno della società composita. Per ciò che concerne la parte più propriamente alchemica, come ci riferisce J. Linsday nel suo Le origini dell’alchimia troviamo il succo del melograno tra i principii trasmutatori di origine vegetale. Tra le varie ipotesi concernenti l’origine del termine alchimia, infatti, rientra quella del suffisso chymia – al quale la cultura araba custode per secoli dei testi filosofali ha aggiunto l’articolo al – inteso appunto nel suo significato di succo. Qui naturalmente parliamo delle tante erbe della vita, della guarigione, della longevità o addirittura dell’immortalità, di cui è piena la mitologia più antica.
A questo proposito basti pensare all’erba dell’immortalità di Gilgamesh, sino all’erba moly che permette ad Ulisse di sottrarsi agli incantesimi di Circe. Nello specifico del melograno, riferisce Linsday, su un rilievo sepolcrale del 550 a.C., presso Chrysapha in Laconia, vediamo due coniugi defunti ritratti in forma divinizzata. La donna tiene in mano un melograno e ne spreme il succo mentre l’uomo lo raccoglie in un grande kantharos. Senza dubbio ci troviamo di fronte ad una rinascita mercé il succo del melograno, riferimento che troviamo anche nell’alchimia cinese che riferisce, tra le proprietà del frutto, anche quella di dare l’immortalità seguendo le pratiche del Nei-dan l’alchimia interiore cinese di ascendenza taoista. Il melograno è anche correlato alla conoscenza essoterica, cioè profana, attraverso l’erba prometheion legata a Prometeo: Medea la impiega, da maga qual era, per dare a Giasone un potere invincibile.
Apollo, Harry Potter
La bacchetta magica ha dunque una lunga tradizione anche nell’antichità greca dove troviamo, sempre come strumento simboleggiante la rinascita delle energie vitali, ed anche del loro contrario secondo il principio alchemico della coniuctio oppositorum, il caduceo di Hermes, divinità psicopompa ma anche nume tutelare delle trasmutazioni vitali che, in questo senso, si riferiscono all’arte medica. I due serpenti che si intrecciano sul caduceo, vero e proprio axis mundi, cioè principio che indica la «retta via», rappresentano infatti le polarità opposte che fanno del farmaco sia una medicina sia un veleno. Paracelso lo spiegava bene affermando che era solo una questione di dose. Anche Omero mette in mano a Circe una bacchetta magica, il cui potere sarà contrastato, come abbiamo visto, dall’erba moly donata da Hermes ad Ulisse: «Ella li condusse dentro, li fece sedere su sedie e seggi, e per essi formaggio e farina e giallognolo miele mescolò con vino di Pramno; e nell’impasto aggiunse veleni funesti perché del tutto scordassero la patria terra. Ma quando a loro lo diede ed essi bevvero, allora subito li percosse con la sua verga e li rinchiuse nel porcile». (Odissea, X, 233-238).
Anche nell’Antico Testamento YHWH fornisce a Mosè il suo bastone magico (Esodo 4,17) ma, forse ancora più interessanti, sono alcune raffigurazioni presenti nelle catacombe romane in cui il Cristo viene raffigurato con una bacchetta in mano nell’atto di resuscitare Lazzaro o moltiplicare i pesci ed i pani. Queste raffigurazioni, che è ancora possibile vedere, furono bollate come eretiche e sacrileghe nel 380, quando il cristianesimo assurse a religione di stato nell’impero romano.
Innumerevoli sono poi i rimandi letterari e cinematografici; basti solo pensare alla fata madrina di Cenerentola o alla trasposizione disneyana dell’Apprendista stregone composta nel 1797 da W. Goethe, in cui Topolino getta un incantesimo sulla scopa per metterla al suo servizio, ottenendo poi l’effetto contrario. Particolare curioso: il Mago che alla fine risolve il disastro del suo maldestro apprendista, si chiama Yensid, cioè Disney al contrario. La storia recente della bacchetta magica incontra infine il mago certo più conosciuto in letteratura contemporanea: Harry Potter, la cui storia ruota intorno alla potentissima bacchetta di sambuco di Albus Silente che Voi-sapete-chi ed il maghetto stesso si contenderanno sino alla fine.
I rabdomanti
Un tipo di bacchetta che possiamo definire magica in senso lato, è quella che usano i rabdomanti. Questa pratica, conosciuta e praticata sin dal III millennio a.C. in Cina e in Egitto, consiste nell’individuare acqua o filoni di metalli nel sottosuolo utilizzando una bacchetta di legno, generalmente a forma di Y, non a caso la lettera pitagorica per eccellenza, che troviamo nell’urbanistica mistica di Napoli nel quartiere di Forcella. A questo proposito interessante la serie di documentari di C. Lo Vetro Tenet Nunc Parthenope su Napoli esoterica, reperibile anche su You Tube.
Più in generale, il termine rabdomanzia viene utilizzato per denominare qualsiasi forma di divinazione che implichi l’uso di bacchette, essendo derivato dalla unione dei termini greci rhábdos, che significa appunto bacchetta, e mantéia, cioè divinazione.
Anche se, come in tutti gli aspetti puramente magici, non ci sono evidenze oggettive, cioè sperimentalmente riproducibili o misurabili, curiosamente, nella terra di Mago Merlino e di Harry Potter, alcune società private di gestione dell’acqua usano i rabdomanti per cercare le perdite nella rete idrica.
A rivelare queste pratiche è stata un’indagine portata avanti nel 2017 dalla biologa S. Le Page, incuriosita da una esperienza vissuta dai suoi genitori durante un intervento idraulico in casa loro: avevano assistito perplessi ai sopralluoghi di un tecnico dell’azienda idrica locale, che aveva esplorato la casa alla ricerca dei tubi dell’acqua difettosi armato di due bacchette per la rabdomanzia. Raggiunta via Twitter, l’azienda aveva confermato, rispondendo così alla sua richiesta di chiarimenti: «Abbiamo scoperto che alcuni vecchi metodi sono efficaci tanto quanti i più moderni».
A cinque anni di distanza, il New Scientist ha deciso di verificare come fosse evoluta la situazione: ha posto nuovamente la domanda a venti aziende britanniche. Due di queste, la Thames Water e la Severn Trent Water, quella da cui la vicenda ha avuto inizio, hanno riaffermato, anche in questa occasione, che i propri tecnici continuano ad usare le bacchette per la rabdomanzia nelle loro ispezioni. E dunque dalla magia culinaria della baguette a quella del rabdomante, la bacchetta magica è ancora presente nelle nostre vite e, naturalmente, ogni bacchetta agita con convinzione possiede lo stesso potere, che altro non è se non quello di catalizzare la nostra stessa volontà di interagire con il mondo attraverso la forza vitale che ci è data.
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