Pur con tutte le sue mancanze e le sue lentezze, l’Unione Europea è, ad oggi, l’unica istituzione sovranazionale che si stia preoccupando del pianeta, partendo da un elemento evidente: la sostenibilità non si realizza a danno (ambito economico, ambientale e sociale) di qualcuno. La strategia Farm to Fork ha l’obiettivo di creare un sistema alimentare europeo sostenibile senza danneggiare i paesi terzi.

Ci sono molte produzioni agricole per le quali l’Europa non è autosufficiente, per cui deve fare accordi commerciali con paesi extra Ue. Come si conciliano questi accordi con le norme che vigono in ambito Ue e che vietano o regolamentano l’uso di sostanze chimiche o di metodologie agricole o di allevamento? Devono rispettare quelle norme solo le aziende europee che producono carne bovina, o riso, o soia o mais o grano ma in quantitativi non sufficienti al fabbisogno interno.

Produrre proteggendo l’ambiente, la salute dei consumatori e quella dei produttori, il benessere degli animali, la qualità dell’acqua e dell’aria, è molto costoso: in termini di spese dirette e in termini di tempo, attenzione, manodopera, certificazioni, tracciabilità, rese…. Per assicurarsi che le regole siano rispettate dai produttori europei si controllano i residui delle sostanze nei prodotti. I residui devono essere sostanzialmente pari a zero per le sostanze vietate e non devono superare determinati limiti se si tratta di sostanze permesse ma regolamentate.

I produttori dell’India, del Sudamerica, degli Stati Uniti, non hanno motivo di attenersi alle regole dell’Ue, ma noi facciamo accordi per acquistare i loro prodotti. Quei prodotti arrivano alle dogane con residui molto più alti di quelli che sarebbero consentiti alle medesime merci se fossero coltivate in Europa. E allora l’Ue alza, per specifici prodotti importati da specifici paesi, il Limite Massimo di Residuo (LMR).

In Brasile per coltivare la soia si usano circa 200 principi attivi, 120 dei quali vietati o addirittura non registrati in Europa.

L’acefato, per esempio, vietato in Ue più di vent’anni fa ma usato in Brasile: per poter acquistare quella soia l’LMR è stato alzato di 15 volte rispetto ad altre sostanze monitorate.

Il 40% del riso che mangiamo arriva da paesi asiatici; l’Ue ha vietato 195 molecole fitosanitarie e altre 269 non le ha mai approvate. In India, le molecole vietate sono solo 56 e addirittura 4 molecole erbicide là autorizzate – cynmethylin, flucetosulfuron, pyrazosulfuron, triafamone – sono sconosciute in Europa.

Nel settore dell’allevamento europeo è vietato somministrare ormoni della crescita o antibiotici con quella funzione; abbiamo regole per antiparassitari e insetticidi, alimentazione, trasporto, macellazione. Altrove non le hanno, e noi importiamo carne bovina da diversi paesi: l’Italia, poi, è il primo importatore di carne bovina brasiliana.

Ecco quindi a cosa servono le clausole specchio: servono a pretendere, nei trattati commerciali con paesi terzi, che i prodotti che l’Ue acquista abbiano le stesse caratteristiche dei prodotti che l’Ue produce. Questo ha chiesto Slow Food ai parlamentari europei, per tutelare la salute dei cittadini oltre al lavoro e al reddito degli agricoltori europei.

Inoltre, le sostanze che fanno male agli Europei fanno male a chiunque nel mondo. Quel che è dannoso per l’ambiente in Europa è dannoso dovunque. Le clausole specchio potrebbero incentivare i paesi esportatori a dotarsi di leggi a protezione di salute, ambiente e animali, correggendo allo stesso tempo quelle disparità che penalizzano in termini di competitività chi produce in Ue rispettando le regole.