L’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan la descriveva come «la più grave crisi di salute pubblica di cui non avete mai sentito parlare». In effetti, secondo le stime più citate, tra le 80 mila e le 138 mila persone nel mondo muoiono ogni anno a causa del morso velenoso di un serpente. Circa il triplo sopravvive ma riporta disabilità permanenti dopo l’incontro con il rettile. Gli avvelenamenti senza conseguenze troppo gravi sono invece tra due e tre milioni.

Sono stime approssimate. Numeri affidabili esistono solo per alcuni paesi dell’Asia meridionale. Per esempio, nella sola India ogni anno le vittime dei serpenti sono quasi 60 mila. Altre decine di migliaia si contano nei paesi confinanti: Cina, Bangladesh e Nepal. Anche in America Latina si stimano almeno duemila morti. Si sa molto meno su Pakistan, Indonesia, e Papua Nuova Guinea e soprattutto Africa sub-sahariana. In particolare, si va a spanne in paesi come la Repubblica Democratica del Congo in cui si concentra un’elevata densità di popolazione rurale in aree abitate da molte specie di serpenti pericolose (mamba, cobra e numerose specie di vipere). Secondo le mappe del rischio, questa è l’area più pericolosa al mondo. Ma dati affidabili non ce ne sono.

Anche se imprecise, si tratta di cifre non troppo lontane da quelle delle grandi malattie endemiche dei paesi in via di sviluppo. Tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità nel 2017 ha inserito l’avvelenamento da morso di serpente tra le venti «malattie tropicali neglette» ad alta priorità, al pari di dengue, lebbra o rabbia. Sono malattie legate alla deprivazione e che contribuiscono a riprodurla, generando stigma e isolamento sociale in chi ne soffre. E come per la malaria o la tubercolosi, gran parte delle vittime dei morsi di serpenti si potrebbero evitare.

NELLE ZONE AGIATE del mondo i serpenti non uccidono quasi più. In Italia, in un decennio si contano meno di dieci vittime. Quelle uccise da vespe, api e calabroni sono dieci volte tanto, riporta il sito di informazione naturalistica Radar Magazine. Sebbene sia un tema classico della letteratura spesso associato all’imperscrutabilità del maligno, la morte da avvelenamento di serpente è un fatto irrimediabilmente legato alla realtà sociale.

La variabile che non dipende dalla volontà umana è la presenza di serpenti pericolosi, assai eterogenea da un luogo all’altro del pianeta. Si conoscono circa 4000 specie velenose. Le due famiglie più numerose sono quella degli elapidi, a cui appartengono cobra e mamba, e quella dei viperidi, tra il quali, oltre alle vipere, figurano anche i serpenti a sonagli. Il veleno può contenere tossine che attaccano il sistema nervoso o quello sanguigno, o anche ormoni che interferiscono con l’attività cardiaca. Le conseguenze più comuni dei morsi sono emorragie, paralisi, spasmi e numerosi altri sintomi spesso poco riconoscibili.

La composizione del veleno però è diversa da specie a specie e dipende anche dal contesto. «Anche fattori esterni come la dieta influenzano l’espressione delle tossine e la composizione del veleno» scrivono David Warren dell’università di Oxford (Regno Unito) e David Williams, ricercatore all’Oms di Ginevra, che al problema globale degli avvelenamenti da serpente hanno dedicato un recente studio pubblicato sul numero di metà marzo della rivista The Lancet.

Questo significa che due serpenti della stessa specie possono causare sintomi diversi in luoghi diversi, e che lo stesso antidoto non avrà necessariamente uguale efficacia. Uno studio dell’università australiana del Queensland pubblicato sulla rivista Toxicology Letters nel 2017 ha mostrato che gli antidoti sviluppati in India contro il veleno delle tozze vipere rostrate (tra le più diffuse e responsabili del maggior numero di morti al mondo) risultavano venti volte meno efficaci se utilizzate in Africa contro lo stesso serpente. Nemmeno gli antidoti sviluppati in Africa orientale e occidentale risultarono intercambiabili.

Il resto dipende dagli squilibri globali, sempre gli stessi. L’estrema eterogeneità dei serpenti rende difficile trovare un rimedio che sia allo stesso tempo economico, affidabile e facilmente disponibile in aree geografiche prive di infrastrutture sanitarie adeguate.

Il primo problema sta nel riconoscimento della specie responsabile del morso, che la vittima non sempre è in grado di identificare. Talvolta aiuta una ricostruzione attenta della situazione. «Se il morso avviene durante il sonno notturno sul terreno, in Asia meridionale è probabile che sia stato causato da un bungaro, in Africa da un aspide o da un cobra, in Australia da un serpente Mulga», spiegano Warren e Williams.

ANCHE QUESTA informazione in ogni caso può non bastare, perché gli antidoti possono essere difficilmente reperibili o non esistere del tutto. Può accadere anche in paesi relativamente attrezzati come il Sudafrica, dove 60 milioni di abitanti devono vedersela con cobra gialli e mamba neri. «Da otto mesi gli antiveleno sono introvabili in tutto il paese» ha detto pochi giorni fa Johan Marais, capo dell’African Snakebite Institute, al settimanale sudafricano Farmer’s Weekly.
Il morso di serpente non mette in pericolo solo la popolazione ma anche il bestiame. L’unico produttore statale non tiene il passo delle necessità e ai privati non interessa. «È una produzione ad alta intensità di capitale e poco redditizia» spiega Marais.

La produzione di antidoti si basa infatti su tecniche piuttosto rozze. Si inietta il veleno in un cavallo in dosi non pericolose ma sufficienti a stimolare la risposta immunitaria e, dopo qualche giorno, dal sangue dell’animale si estraggono gli anticorpi. Come per ogni farmaco, servono test accurati per misurarne l’efficacia e la sicurezza. Ma studi seri vengono effettuati di rado. «In molti contesti disagiati, l’informazione sugli antiveleni disponibili è inaffidabile» scrivono Warren e Williams. «Molti prodotti vengono commercializzati senza test clinici e la loro efficacia è assai dubbia».

Nel 2019, tre ricercatori della Ong Medici Senza Frontiere hanno cercato le evidenze scientifiche sull’efficacia di 16 antidoti diffusi in Africa sub-sahariana per uno studio su Plos eglected Tropical Diseases. Solo per tre prodotti, è emerso, erano stati effettuati studi di qualche affidabilità. Per nove di essi, comunemente usati in diversi paesi, gli unici studi disponibili ne avevano semmai dimostrato l’inefficacia. D’altronde, effettuare test clinici in contesti privi o quasi di strutture sanitarie come le aree rurali dell’Africa centrale o dell’Asia meridionale è un problema quasi insormontabile e senza soluzioni alternative, visto che è lì che vivono i serpenti.

Se gli antidoti disponibili sono spesso poco efficaci, per quasi la metà delle 278 specie monitorate dall’Oms non ne esistono affatto. Per gli Stati ricchi non è una priorità. Le società farmaceutiche hanno uno scarso incentivo a investire in questo peculiare campo. Oltre agli elevati costi della sperimentazione, il mercato si concentra in paesi che non garantiscono profitti o in cui è difficile conservare gli antidoti a bassa temperatura senza farli scadere. Il rischio di fallimento è troppo elevato.