Sergente Romano, contro i Savoia
Intervista Marco Cardetta racconta la storia della prima rivolta meridionale dopo l'Unità d'Italia
Intervista Marco Cardetta racconta la storia della prima rivolta meridionale dopo l'Unità d'Italia
«Madonna del Carmine, assistimi tu… Mena un occhio pure su Lauretta che lei pure ti vuole bene assai, e quando dovessimo entrare dentro a Gioia… che secondo me manco entriamo… dammi una mano… Con questi quattro scalcagnati, ne ho bisogno assai». 28 luglio 1861. A invocare protezione celeste è Pasquale Domenico Romano, ex sergente dell’esercito borbonico, ora sbandato tra gli sbandati che si apprestano ad assalire Gioia del Colle, in Puglia, in nome di Francesco II, contro liberali e savoiardi. Contro il Regno d’Italia. Siamo dentro la Storia, nelle sue remote profondità, e in un romanzo (d’esordio), quello di Marco Cardetta, classe 1983. Sergente Romano, edito da LiberAria, è irrequieta costellazione narrativa e spirale linguistica. Tragicomica e crudele mappatura sentimentale degli “ultimi”.
Come ti sei avvicinato alla figura del Sergente Romano?
Si avvicinò lui a me per caso. Anni fa comprai un libro sul brigantaggio di un vecchio storico locale anni Trenta. Non lo lessi. Lo riguardai molto tempo dopo, e da quel momento – sono passati più di dieci anni intanto – cominciò a ronzarmi in testa. Diventò qualcosa di più, però. Quella storia e le parecchie storie del banditismo post-unitario, che ho esplorato da allora, si son trasformate in un ragionamento che m’attaglia fin dal midollo. Questo libro è in realtà il primo step di un percorso che vedrà altri volumi, anche più corposi e ambiziosi. Il brigantaggio come genere, come universo, come pretesto, come eastern (not western), per parlare di Sud e di Mediterraneo, di culture tradizionali e loro scomparsa, di ancien régime e di modernità, di capitalismo, di concezione del tempo, dell’individuo, di linguaggio. Sergente Romano è un vulnus, è l’oscuro, il gioco vuoto. È il caos pre- e post-. Il brigantaggio – si potrebbe dire – non è un pranzo di gala. E a me quel banchetto interessa, con tutto ciò che l’ha incrociato.
Ecco. Ma avverti subito il lettore: «Tutti i fatti scritti in questo libro sono inventati, ad eccezione di quelli veri». Qual è stato il procedimento, dunque, che hai cercato di darti, come poteva combinarsi per te il documento storico con l’invenzione narrativa? Personaggi, luoghi, nomi, soprannomi, i documenti presenti nel libro…
Diciamo che m’è venuto naturale. Il mio intento nel libro era proprio lavorare sul rapporto tra bidimensionalità dei documenti e vita. Riempire i vuoti, dare corpo e sangue ai documenti che schiacciano le vite, le ricchezze delle esistenze, il cosmo delle relazioni, in fredde bidimensionalità d’inchiostro su carta, del dato, della statistica, della citazione mortuaria nel Registro delle anime. Il libro è prima di tutto questo: ragionamento su cosa è la storia e cosa è la vita. Interrogarsi su ciò che è stato e farlo rivivere, ri-crearlo, creare la vita. Soprattutto poi se si vuol avere uno sguardo linguistico e antropologico. Allora la cosa interessante è ricreare visioni diverse, semantiche diverse, che illuminano angoli di mondo che noi non illuminiamo più.
Trovo, in questo senso, che le tua scrittura si muova all’interno di una intensificazione, proprio sensoriale, direi, distribuita in tante presenze: gli animali, le piante, le case, tutta una geografia degli eventi, e poi il mangiare, l’uccidere, il morire «dalla parte sbagliata» della Storia.
Sì. Noi siamo il nostro ambiente. Non siamo un corpo immerso newtonianamente in un tempo e in uno spazio: siamo lo spazio, il movimento (il tempo non esiste), la relazione. Noi siamo il formaggio d’altura che quando lo porti a valle non ha più lo stesso sapore. Lo devi mangiare lì, in cima, tra le erbe di cui la vacca si è nutrita. Sei pure tu vacca, sei erba, sei formaggio. Ciò che mangi è la parola che lo accompagna, il vestiario, il vento, l’erba. Perché quell’erba è il suo uso. Un uso dimenticato. Ecco allora illuminare angoli di realtà scomparsi: l’alimurgia e l’etnobotanica come fonte primaria.
Altro aspetto che mi interessa: «Io combatto per una lingua di liberazione (non di libertà)… che è una qualsiasi lingua nuova». Lo scrivi nella nota postuma a fine testo. E anche i personaggi parlano la “tua” lingua, non solo la loro.
Beh, i personaggi parlano come devono parlare e parlano come mangiano. Un dialetto stretto non si può fare, senza cadere in una incomprensibilità inutile. Ciò che a me interessa non è tanto la mimesi con il terrone di allora, ottocentesco. Mi interessa di più la sua sintassi, la sua semantica, i suoi ritmi. Ho lavorato su quello per la loro lingua. Una lingua deformata, che è un italiano che sta stretto a chi l’Italia stava stretta.
Intorno a questo libro, inoltre, sono nate attività, tra escursioni e spettacoli, che stai portando avanti.
Appunto, siccome è un progetto ancora in divenire, la ricerca continua anche in altre modalità, sulle forme primordiali della lingua e del racconto, dell’oralità, del cuntismo. Ecco allora lo spettacolo Voci di sbandati nel quale interpreto diversi banditi/sbandati/briganti che raccontano perché sono diventati briganti. Un’antologia di Spoon river del Sud per mostrare la multiformità del fenomeno e, attraverso i loro “perché”, illuminare in altro modo la vita contadina, le relazioni, gli usi di un mondo scomparso. Storie liriche, comiche, grottesche. Con “l’ambiente” sonoro del musicista Roberto Salahaddin Re David. Accanto a questo, c’è un cuntismo itinerante, escursioni trekking o in bici, organizzate con Ciclomurgia di Filippo Tito e Coop Serapia di Pietro Chiatante: portiamo turisti italiani e stranieri sui luoghi delle storie che conosco e narro loro le vicende, le ricreo, le faccio rivivere, racconto quanto sono cambiati i luoghi, le favole. E poi l’attività intensa nelle scuole, seminari, workshop, e anche con loro escursioni: per far scoprire ai ragazzi un mondo sconosciuto, per farli immergere una volta tanto nella natura, e cercare di stupirli un po’. Per ripartire da loro.
Quarta di copertina del libro: «Il ritratto di un’epoca di transizione che sembra non voler ancora finire». Di che transizione si tratta, oggi?
La transizione è quella dall’ancien régime, dalle culture tradizionali, alla modernità e al capitalismo, alla globalizzazione. Non ci siamo ancora arrivati del tutto, ma è già tempo di ritornare un poco indietro, non credi?
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