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Serge Toubiana, un amico del cinema

Serge Toubiana, un amico del cinemaToubiana e Serge Daney a Cannes – Beatrice Lagarde

Libri "I fantasmi del ricordo" uscito a ottobre in Francia (Grasset) : percorso professionale e itinerario personale del critico dei Cahiers

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 25 febbraio 2017

Quando tratta il tema delle immagini nei suoi scritti di psicologia, Aristotele non utilizza il termine generico di eikon (da cui l’italiano icona) bensì quello, più preciso, di phantasma: le immagini hanno per lo Stagirita un rapporto diretto con la phantasia, una facoltà che si pone a metà strada tra la sensazione e il pensiero, e che ha un’importanza fondamentale per entrambi. I fantasmi del ricordo che danno il titolo al libro di memorie di Serge Toubiana – recentemente pubblicato in Francia dall’editore Grasset – non affondano le loro radici negli scritti del filosofo greco ma si rifanno alla strofa di una canzone di Georges Brassens, e più che con le immagini della storia del cinema hanno a che fare con le reminiscenze, gli incontri, i racconti di vita e di lavoro di un critico cinematografico presto diventato uomo delle istituzioni di grande importanza. Titolo che si direbbe quasi buñueliano per un libro di 450 pagine che si legge d’un fiato e si concentra su tutto quello che sta dietro, attorno e al di là delle immagini dei film, a costruire uno spazio essenziale per la loro fruizione e dunque in fondo a permettere la costruzione di quel campo complesso che chiamiamo cinema: un’arte inestricabilmente fatta anche di luoghi, parole, passioni, relazioni e che ha certo avuto e continua ad avere in Francia uno dei suoi templi.
Toubiana nasce in Tunisia nel 1949 da genitori francesi (ebrei e comunisti), ha 24 anni quando entra ai Cahiers du cinéma e 32 quando ne diventa caporedattore. La rivista fondata da André Bazin era riuscita a superare un momento difficile della sua storia, una politicizzazione estrema che nei primi anni Settanta aveva ridotto il numero di uscite e quasi portato ad allontanare il cinema dai suoi interessi fondamentali. La lunga transizione condotta da Serge Daney era riuscita a scacciare quegli spettri, aprendo la rivista a interventi eterogenei come quelli dei filosofi Foucault, Deleuze, Rancière, Klossowski e restituendo ai Cahiers la loro importanza. Quando Daney nel 1981 accetta di diventare responsabile delle pagine cinematografiche del quotidiano Libération la redazione dei Cahiers è concorde nell’affidare a Serge Toubiana, che lo aveva affiancato come segretario di redazione sin dal 1973 e come amministratore dalla fine del 1978, il compito di rilanciare una rivista che aveva ripreso a interessare un pubblico ampio. Erano anni di grandi mutazioni che bisognava affrontare con decisione: l’autore insiste sulla responsabilità di una rivista che intendeva preservare a tutti i costi la sua indipendenza, anche economica, e che nel frattempo doveva confrontarsi con fenomeni che trasformavano radicalmente la fruizione del cinema, come l’esplosione del video e la moltiplicazione dei canali televisivi.
Le intuizioni editoriali di Toubiana sono felici: rinnovare l’attenzione verso una cinematografia dimenticata dalla rivista come quella statunitense trasferendo per un mese la redazione negli USA, e con lo stesso principio raccontare altre cinematografie meno note (Hong Kong, o la Russia della Perestrojka). E ancora, sulla scia del numero 300 affidato a Godard, festeggiare i numeri 400 e 500 con caporedattori d’eccezione come Wim Wenders e Martin Scorsese, ottenendo un grande successo di pubblico e di vendite. D’altra parte è questa l’immagine che Toubiana vuole dare di sé: quella di un riparatore di istituzioni claudicanti. «Non è né un mestiere né una funzione. Forse una vocazione, simile a quella di mio padre che aggiustava orologi. Vegliare affinché le cose funzionino, fare in modo che l’amore per il cinema si trasmetta da una generazione a un’altra. Io stesso ne avevo approfittato agli inizi, quando Serge Daney mi aveva preso a suo fianco in un periodo della mia vita in cui avevo tutto da imparare».
Già, Serge Daney. Si deve proprio a Toubiana, che di Daney fu interlocutore privilegiato, l’esistenza di uno dei testi più organici e appassionanti del grande critico francese, quel Persévérance (in italiano Lo sguardo ostinato) che è frutto della registrazione di due giornate di incontri in un albergo vicino Aix-en-Provence, pochi mesi prima che la morte lo portasse via per sempre a soli 48 anni. La rivista Trafic era appena nata, e Daney aveva da poco abbandonato il quotidiano Libération in seguito a un celebre scontro con il regista Claude Berri: dopo essere stato oggetto di un’aspra critica per il suo film Uranus, Berri aveva denunciato il giornale e ottenuto dal tribunale un diritto di replica su Libération. Daney soffrì molto del fatto che nessuno, all’interno del giornale e tra i suoi amici, avesse preso le sue difese. Anche Toubiana non lo aveva sostenuto, e Lo sguardo ostinato nasce allora dal tentativo di recuperare un’amicizia che rischiava di essere minata da questo episodio. Sembra appartenere a un pragmatismo troppo sbrigativo, allora, il modo in cui Toubiana liquida in poche righe il fatto che di lì a qualche anno si troverà a lavorare proprio a fianco di Berri nella nuova Cinémathèque française, della quale sarebbe stato direttore dal 2003 al 2016.
La morte di Daney coincide in effetti simbolicamente con l’inizio di una seconda parte del libro, dal tono più istituzionale, dedicata alle esperienze che lo vedono protagonista di transizioni importanti nella storia recente della Francia: dalla celebrazione del primo secolo del cinema alla digitalizzazione del patrimonio cinematografico (collaborerà a lungo con Marin Karmitz per la collezione DVD di MK2), dal fallito tentativo di costruire un polo di promozione dell’immagine al Palais de Tokyo – sogno del ministro socialista Jack Lang – al trasferimento della Cinémathèque a Bercy. È spesso questione di ministri, sindaci, presidenti della repubblica, capi di gabinetto, direttori e burocrati vari, nelle pagine di Toubiana. Ci sono discorsi e cerimonie ufficiali, riunioni e consigli d’amministrazione, mentre non trovano spazio vite minuscole come quella della giovane bigliettaia che lo scorso anno, inaugurando una serie di Lettere aperte alla Cinémathèque française, denunciava il sistema di precariato che costituisce una parte del suo funzionamento rivolgendosi proprio a Toubiana e al suo successore Fréderic Bonnaud. La videolettera di Anna Bosc-Molinaro, di cui Eugenio Renzi ha scritto su queste pagine, chiamava in causa il passato militante di Toubiana, sottolineando il disinteresse colpevole – da parte di un direttore che era stato membro della gioventù comunista – rispetto alla situazione lavorativa di una minoranza dei lavoratori di quell’istituzione. Un mutamento di paradigma che investe più in generale un’epoca di precarizzazione del lavoro come la nostra, tirando in ballo il volto meno luminoso di molte istituzioni culturali e di non pochi tra quelli che, non solo in Francia, si sono presto sentiti più a loro agio nel campo dell’amministrazione che in quello della scrittura o della militanza.
Il pregio di questa seconda parte risiede se si vuole nell’immagine precisa, ancorché meno romantica, delle energie e degli investimenti necessari alla realizzazione di progetti come quello della nuova Cinémathèque française. Ma le pagine più interessanti riguardano senza dubbio gli straordinari incontri e le amicizie della vita di Toubiana: da François Truffaut a Maurice Pialat, da Clint Eastwood a David Lynch, da Jean Eustache («che faceva cinema come viveva, intensamente e senza il più piccolo compromesso») ad Agnès Varda. Una vita vissuta tra la sala e lo schermo, per un uomo che Juliette Binoche ha definito l’amico del cinema.
Il libro si apre con un elogio della paura al cinema (la prima visione de La strada, a sette anni) e si chiude con un capitolo intitolato E la nave va. Tra questi due estremi felliniani, e in mezzo alla narrazione di una carriera di successo e di potere (checché ne voglia l’autore), risuona con forza il monito pronunciato da Isabelle Huppert che riporta il cinema alla sua dimensione più pura. Un elogio dell’imprevisto, del proibito e delle scoperte nascoste che rappresenta per Toubiana una delle più belle definizioni della settima arte: «Il cinema è contrabbando. Ci si arriva di nascosto, da clandestini, con la propria valigetta, il proprio mucchietto di affetti, il proprio travaglio interiore che si espone di fronte a tutti. Lo si mette sul tavolo e allora comincia il baratto, ufficioso e pubblico. Io do tu restituisci, tu ti servi e io prendo». Ancora una volta, forse, aveva ragione Daney: le cinéma c’est l’enfance.

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