Alias Domenica

Sereni-Anceschi, lettere e distacchi

Novecento italiano Luciano Anceschi considerava Vittorio Sereni alla stregua di un «relais» tra Montale e i Novissimi; il poeta luinese cercava nel fervore socratico dell’amico una barra d’appoggio

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 3 novembre 2013

Un ragazzo introverso, uno studente ritardatario, un outsider della vita, questo si sentiva Vittorio Sereni nel 1935, appena ventunenne, alla scuola milanese di Antonio Banfi e in procinto di laurearsi su un poeta tanto più infingardo e malizioso di lui, quel Guido Gozzano in procinto di entrare nel cono d’ombra ventennale da cui l’avrebbe tratto, ben oltre il dopoguerra, una prefazione di Eugenio Montale che, rara avis, gli concedeva la palma di suo antecedente se non proprio di battistrada; viceversa, maggiore due anni rispetto a Sereni, di Banfi allora poteva dirsi un prosecutore, non gli fosse stato allevo tanto indocile e di estri sulfurei, Luciano Anceschi, firmatario di Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936) che è tanto un’eversione della monadologia crociana quanto l’atto fondativo di una estetica fenomenologica.

L’uno, Sereni, per lunghe necessarie incubazioni e perenni ripensamenti, avrebbe fornito il diagramma poetico del disincanto, tra Gli strumenti umani (’65) e Stella variabile (’82), guadagnando una sua posizione defilata e aggettante sui problemi esistenziali e le dinamiche della cosiddetta società affluente, mentre l’altro, Anceschi, avrebbe prodigato il talento socratico facendosi mallevadore della ricerca poetica in progress, da Ungaretti e Quasimodo (capintesta dei Lirici nuovi, suo fondamentale contributo del ’43) ai Novissimi e, più generalmente, agli autori del Gruppo 63 di cui la rivista “il verri”, attiva dal ’56, può dirsi sia una palestra intellettuale sia un braccio secolare. Talmente diversi, così opposti e complementari, da essere amici e due interlocutori ideali come oggi testimonia la pubblicazione del volume intitolato dalla parte di Vittorio Sereni, Carteggio con Luciano Anceschi 1935-1983 (Feltrinelli «Le Comete», pp. 381, euro 20,00), che esce con la lodevole curatela, puntuale nelle annotazioni, di Beatrice Carletti e con la introduzione di una allieva dello stesso Anceschi, fra le maggiori specialiste della poesia italiana contemporanea e cioè Niva Lorenzini.

Sono in tutto 257 documenti epistolari con una relativa prevalenza dei sereniani specie per l’anteguerra; la scansione cronologica è distinta grosso modo in tre sequenze: la prima culmina nella pubblicazione di Frontiera, l’esile plaquette d’esordio che esce nelle edizioni di «Corrente» grazie alla proverbiale ostinazione di Anceschi e nonostante la perplessità costante del poeta luinese; la seconda (dopo il vuoto per entrambi ineluttabile del ’43-’45), che è più breve e bruciante, li associa e intanto li distanzia nel decennio che vede da un lato affermarsi la neoavanguardia e dall’altro l’uscita, in solitario, de Gli strumenti umani, un libro che Anceschi riceve in silenzio o comunque in assenza di un pubblico suo pronunciamento; la terza, che arriva al gennaio del 1983, nell’imminenza della scomparsa di Sereni, equivale a una tacita riconciliazione anzi alla ripresa di un dialogo che sembrava essersi interrotto per una sopravvenuta, e mai davvero esplicitata, incomprensione.

È noto che Anceschi leggeva Sereni alla stregua di un relais fra Montale e i Novissimi, come fosse l’espressione di un immanentismo certo problematico ma legato pur sempre alla «poetica degli oggetti»; è noto, altrettanto, che Sereni cercava nel fervore socratico dell’amico una barra d’appoggio (dunque delle rifrazioni teoretiche che fungessero da autoriconoscimenti) per una ricerca che infatti sentiva sospesa, sempre incerta, fallibile. Non era un dialogo fra sordi ma, ancora una volta, si trattava del rapporto e del contrasto fra due esiti opposti, non ricomponibili né rimarginabili, di una medesima scaturigine e ne è riprova, nel baricentro del Carteggio, la lunghissima lettera, qualcosa come quindici cartelle dattoloscritte, che Sereni invia all’amico nell’aprile del ’52 smarcandosi dall’inclusione nella antologia della Linea lombarda; qui, lui che non ha mai voluto formulare una poetica esplicita, continuando a sentirsi un «deposito di funeste apprensioni e inquietudini», così gli si rivolge: «Mi pare che tu creda molto ancora, mentre io credo solo alle amicizie a due, magari a tre […], a me pare che tu creda ancora a un lavoro comune, a una collaborazione, a un fatto, se pure limitatamente, collettivo e ambientale». In altri termini, e in anticipo di anni, Sereni formula i motivi di un immediato distacco, il quale si rende evidente alla prima uscita della antologia de I Novissimi nella lettera, capitale, del gennaio 1961 (in cui li accusa di formulare poetiche senza affatto le poesie, anzi di puntellare con le poetiche la debolezza delle poesie stesse: «Impressione generale: queste poesie non dicono niente – o quasi – senza un discorso preparatorio, senza note, senza commenti, senza che se ne faccia – prima – il punto goniometrico») e poi, in maniera ancora più vistosa nella gestione di una polemica che oppone un duro editoriale di Giansiro Ferrata comparso nel ’62 su «Questo e altro» (la rivista di cui Sereni è allora magna pars) a un saggio del giovanissimo Fausto Curi (Sulla poetica e sulla critica di Pasolini) uscito pochi mesi avanti sul «verri». Ironia della sorte, sarà proprio Curi, molti anni dopo (e, fra gli altri suoi contributi, in La poesia italiana nel Novecento, Laterza 1999) a fissare non solo la condizione di «inquietudine ermeneutica» che presiede all’arte di Sereni ma a cogliere magistralmente quanto il suo maestro Anceschi non poteva riconoscere e lo stesso Sereni ammettere: vale a dire non la continuità e nemmeno la contiguità fra Gli strumenti umani e la poesia neoavanguardistica, quanto l’inopinata, non meno oggettiva, reciprocità leggibile fra i poeti che necessariamente aprono/disgiungono/disseminano e chi invece, accollandosi in solitudine la pars construens, attinge tuttavia «uno dei punti più alti cui in Occidente è giunta l’autocoscienza borghese, che fa diventare il colloquio con se stesso e con gli altri la struttura visibile di una percezione del mondo plurale, multipla, perennemente inquieta e insoddisfatta, inconciliata, sempre aperta all’obiezione e all’autocorrezione, incline a un’analisi perpetua, contestativa e autocontestativa».

Lo studente ritardatario, il precoce lettore di Gozzano e il presunto epigono di Montale, fra Gli strumenti umani e Stella variabile, era arrivato esattamente lì, nell’occhio vorticoso del suo secolo, laddove recuperava un equilibrio impensabile per quasi ogni altro. Se è vero che Anceschi, fedelissimo a Frontiera e al Diario d’Algeria, aveva poi taciuto su tutta la linea (a parte un saggio tardo, e penetrante, sulle versioni sereniane da Giorgio Seferis), è comunque ipotizzabile che il lavoro del maggiore tra gli allievi, Curi appunto, abbia rilanciato e per più di un aspetto rinnovato l’attenzione alla poesia del suo amico di sempre. Fatto sta che la zona terminale del Carteggio, gremitissima, commemora il fervore, l’affetto, degli anni milanesi alla scuola di Banfi. Nemmeno è un caso che Sereni abbia concesso al «verri» alcune fra le sue estreme collaborazioni. E in una delle ultime lettere, scritta a Milano il 10 maggio del 1982, gli riconosce con aperta ammirazione un antico e perdurante impegno: «È un modo per non chiuderti e per ricordarti agli amici. Ma soprattutto per continuare a dare il frutto di una riflessione che non si è mai sopita». Anceschi avrebbe potuto dirlo di lui.

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