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La Turchia sospende i raid, 5 giorni ai curdi per ritirarsi

La Turchia sospende i raid, 5 giorni ai curdi per ritirarsiTel Temer, sullo sfondo il fumo di pneumatici dati alle fiamme per ridurre la visibilità ai caccia turchi – Afp

E così Siria Trump «restituisce» a Erdogan la zona cuscinetto. Ma ora è piena: ci sono russi e siriani. E le Ypg/Ypj avevano già lasciato la safe zone un mese fa. Attesa per la reazione di Putin e Assad

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 18 ottobre 2019

L’annuncio arriva in serata, prontamente confermato su Twitter dal presidente Usa Trump: il suo vice Pence e il segretario di Stato Pompeo hanno ottenuto dal presidente turco Erdogan il cessate il fuoco. «Grande notizia, milioni di vite saranno salvate», scrive Trump.

La Turchia interromperà le operazioni militari (bombardamenti dal cielo e avanzata terrestre delle milizie islamiste) in cambio del ritiro delle unità di difesa curde, Ypg e Ypj, dalle safe zone, 20 miglia dentro il territorio siriano.

Hanno tempo 120 ore, cinque giorni, per andarsene. Non è chiaro se ad andarsene saranno anche le gang islamiste che in questi giorni hanno occupato alcune delle comunità al confine. Ad «aiutare nel ritiro» (comprensivo di abbandono di armi e smantellamento delle postazioni militari) saranno gli Stati uniti. Dunque tornano sul campo?

Non è dato sapere cosa ne pensino russi, siriani e Forze democratiche siriane né se le Sdf accettino che a parlare per loro sia l’uomo che ha dato di fatto il via alle bombe turche e che fino a 24 ore fa li scaricava con un mero «non è un mio problema». Dopotutto dalla safe zone si erano già ritirate più di un mese fa, dopo l’accordo Turchia-Usa.

Ieri è giunta la dichiarazione di Salih Muslim, portavoce del Pyd, il Kurdish Democratic Union Party: «Bene il cessate il fuoco, ma non accetteremo un’occupazione della Siria del Nord».

Trump prova a riprendersi la scena siriana dopo giorni di giravolte e dichiarazioni oltre il limite dell’imbarazzante. E dopo la lunga anticamera, un giorno intero, che Pence e Pompeo avevano dovuto sopportare ad Ankara e la candida ammissione di fonti governative turche: la letterina che Trump aveva inviato il 9 ottobre (data di inizio dell’operazione «Fonte di pace» contro il nord della Siria) era stata cestinata dal “sultano”.

Prima dell’annuncio, a parlare era stata la Russia. O meglio, la Turchia riportava alla stampa le promesse di Mosca: via dal confine le Ypg/Ypj. Una proposta difficile da rifiutare per Erdogan, è l’obiettivo ufficiale della campagna militare.

Ma non gli garantirebbe il raggiungimento del vero traguardo, quella zona cuscinetto con cui annientare l’amministrazione autonoma di Rojava. Perché nel frattempo verso il confine si sono mosse le truppe di Damasco, il cui comandante in capo, Assad, ieri spegneva i bollori turchi: il presidente siriano, nelle prime dichiarazioni dall’inizio dell’offensiva, ieri faceva sapere che avrebbe reagito all’invasione «con ogni mezzo legittimo possibile».

Identica la posizione curda, ribadita ieri da Kobane: «Vogliamo un sistema federale e decentralizzato – dice Shahin Najid Ali del Consiglio legislativo di Kobane – in cui la protezione dei confini sia compito del governo siriano». Dunque, tutti d’accordo. Ed Erdogan rischia di restare a mani vuote.

Un’operazione finora lunga nove giorni, 218 uccisi civili (18 bambini), 650 feriti e 300mila sfollati e la Turchia ri-ottiene la zona cuscinetto, ma stavolta è piena di russi e siriani (da pazzi pensare di attaccarli) e di un accordo militare (che dovrà trasformarsi in intesa politica) tra Sdf e Damasco.

Nel pomeriggio le Sdf avevano chiesto l’apertura di un corridoio umanitario per portare fuori dalle zone di guerra i feriti. Ma le bombe sono cadute comunque, soprattutto su Ras al-Ain (Sere Kaniye), tra le comunità più martoriate. Le Sdf ne hanno mantenuto il controllo (grazie a una fitta rete di tunnel e trincee), ma la popolazione è allo stremo, in trappola. Si rischia un genocidio, l’appello curdo.

Sotto pressione è anche Tel Temer, insieme ad Hasakeh la meta degli sfollati dalle città di confine: scuole e centri comunitari hanno aperto le porte a chi scappa, le associazioni locali forniscono cibo e coperte, ma non basta più.

A crescere è anche il timore per l’uso di armi chimiche dopo la pubblicazione di foto e video di bruciature sul corpo di alcuni feriti. Nel Rojava però si opta per la cautela: la certezza dell’uso di fosforo bianco non ce l’ha e chiede esperti internazionali per analizzare le ferite e capire da cosa siano prodotte. Tutt’altro stile rispetto al sensazionalismo dei Caschi bianchi.

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