Una guerra mondiale è in corso, in Ucraina si combatte con le armi, ma la battaglia infuria, a livello globale, sul fronte energetico, su quello finanziario, alimentare, delle materie prime, dell’informazione. L’economia vira verso la recessione mentre l’inflazione s’impenna e penalizza i redditi medio-bassi. Nei paesi poveri diventa concreta la minaccia di carestie. Quanti fino a ieri magnificavano le virtù di una globalizzazione all’insegna degli animal spirits del capitalismo, ora innestano la retromarcia proponendo processi di deglobalizzazione tanto rapidi quanto illusori. Intanto si aggrava la crisi climatica, continua il dramma dei migranti, crescono le disuguaglianze sociali e territoriali, nuovi pericoli incombono sulla salute pubblica.

DI FRONTE A UN’EMERGENZA globale di tale portata, appare evidente l’inadeguatezza politica dell’Ue. La sua iniziativa è inefficace. Non è all’altezza del ruolo che, per storia e per cultura, le spetterebbe. Sono limiti che derivano dalle sue stesse origini. Nata come mercato unico (il Mec prima e la Cee dopo), si è dotata successivamente di una moneta unica. Ma non ha mai goduto di veri poteri, che i singoli Stati hanno gelosamente tenuto per sé. Da qui la farraginosità e la lentezza delle decisioni. Il veto di un solo paese (vedi l’ungherese Orban nel caso dell’embargo sul petrolio russo) è sufficiente per bloccare ogni risoluzione di rilievo. Le cause della debolezza politica e della mancanza di una autonomia strategica dell’Ue stanno tutte, insomma, in una mission priva di anima: il rispetto del Patto di Stabilità e Crescita. Il mito della «stabilità» e il dogma della «crescita».

LA COSTRUZIONE EUROPEA è, dunque, avvenuta tutta dentro una visione mercatista, che si è consolidata nel tempo, soprattutto con la globalizzazione e con la caduta del blocco sovietico. Per una sorta di divisione del lavoro, all’Ue è stato affidata la governance dell’economia e degli scambi, mentre l’alleato americano ha tenuto per sé le decisioni strategiche, le innovazioni tecnologiche, le relazioni internazionali, il controllo – insieme alla Nato – dei conflitti e delle tensioni geopolitiche. Questo schema, alla prova dei fatti, non ha retto.

A partire dagli anni ’90 si sono susseguite crisi finanziarie a ripetizione. La più grave, deflagrata nel 2007 negli Usa, si è propagata in tutti i continenti. In alcuni paesi europei, fra cui l’Italia, si è prolungata fino al 2015, stremando le popolazioni con le famigerate «cure da cavallo»: misure restrittive, pesanti tagli al Welfare, bassi salari e rapporti di lavoro sempre più precari. Inoltre, in giro per il mondo, si sono moltiplicati i teatri di guerra. Gli Usa hanno preteso di ergersi a guardiani della «civiltà liberale occidentale», teorizzando anche l’«esportazione della democrazia». La Cina, dal canto suo, dando vita ad una forma singolare di «economia socialista di mercato», è diventata protagonista di una crescita straordinaria e contende agli Stati Uniti il primato tecnologico. Su tutte le questioni – economiche, finanziarie, geopolitiche – l’Ue è a rimorchio degli eventi, agisce di rimessa rispetto alle finalità e a gli interessi di tre grandi colossi, quali sono Usa, Russia e Cina.

IN UN SUO RECENTE intervento, il presidente francese Macron ha posto il tema del passaggio ad una «comunità politica europea», rimarcando così l’insufficienza di una dimensione prevalentemente «economica». Dalle sue parole traspare, però, un’idea di comunità politica come mero prolungamento della comunità economica, non già come la configurazione di una Unione a cui i 27 Stati-nazione trasferiscano quote significative di «sovranità». Cambiare non è facile. I governi non sono propensi a cedere funzioni e competenze ad organismi sovranazionali. L’alleato americano, da parte sua, tra un’Europa forte e autonoma – con un bilancio comune, con una politica estera e di difesa – e un’Europa debole e divisa, preferisce la seconda.

SIAMO ENTRATI IN UNA FASE politica nuova e complessa. Tutto spinge verso il rafforzamento e il coordinamento delle politiche pubbliche a livello europeo. Ma l’Unione è divisa sulla prospettiva di dare continuità al Next Gen.Eu, l’unica vera novità, pur con molti difetti. Non c’è accordo su interventi economici e sociali da realizzare con un’ottica di «programmazione democratica», termine desueto in una sinistra di complemento al pensiero liberista, ma di grande attualità per una sinistra socialista ed ecologista che ambisca, invece, ad un ruolo di cambiamento.

Il futuro dell’Ue si gioca nel passaggio da un governo «tecnico», qual è in sostanza l’attuale Commissione europea, a un governo politico di tipo federale. La sostituzione dell’unanimità con un voto a maggioranza nelle decisioni diventa questione dirimente per dare senso e contenuti nuovi all’Unione. Per estenderne i poteri alle politiche fiscali e di bilancio, a quelle energetiche, alla politica estera e di difesa, alle politiche sociali e del lavoro. Forse è l’occasione buona per lanciare, da sinistra, una sfida non velleitaria, ma vincente, ai partiti sovranisti e di destra.