Senza il pesce il mare è come un cimitero
Il fatto della settimana Secondo la Fao, sulle tavole degli umani nel 2016 sono arrivate 171 milioni di tonnellate di pesce. Un eccesso di produzione che «desertifica» i mari
Il fatto della settimana Secondo la Fao, sulle tavole degli umani nel 2016 sono arrivate 171 milioni di tonnellate di pesce. Un eccesso di produzione che «desertifica» i mari
A differenza degli altri animali da tavola, i pesci catturati e quelli allevati non vengono misurati in termini di individui (sarebbero migliaia di miliardi) ma solo di tonnellate. Numeri vertiginosi.
Secondo l’ultimo rapporto Sate of World Fisheries and Acquacolture (Sofia) della Fao, la produzione di pesce è arrivata nel 2016 a 171 milioni di tonnellate, dei quali 80 milioni in acquacoltura e 90,9 di cattura. C’è però la tendenza a sottovalutare un’altra grande risorsa dei mari, le piante acquatiche, alghe e microalghe: quelle coltivate sono arrivate a 30 milioni di tonnellate.
Il consumo pro capite di pesce a livello mondiale è salito dai 9 kg del 1961 ai 20,2 del 2016. L’88% della produzione, cioè 151 milioni di tonnellate, è stato utilizzato per il consumo umano diretto. Si registrano alcune riduzioni negli sprechi: 20 milioni di tonnellate che prima erano gettati come sottoprodotto ora sono almeno in parte trasformati in farine e olio di pesce. Sono migliorati anche la trasformazione e la distribuzione, tuttavia la perdita fra il pesce tirato fuori dall’acqua e quello che arriva al consumo è del 27%.
La situazione delle risorse ittiche marine e d’acqua dolce globalmente continua a peggiorare. Nel 2015, il 33,1% degli stock ittici mondiali è stato prelevato in modo biologicamente insostenibile (nel 1974 si trattava del solo 10%). Nel mar Mediterraneo e nel mar Nero, secondo la rivista dell’Ue Affari marittimi e pesca, è soggetto a sfruttamento eccessivo oltre il 90% degli stock ittici.
L’opuscolo di Greenpeace Proteggi il mare, proteggi il futuro punta il dito contro la pesca eccessiva, distruttiva e con metodi illegali. A fronte di 12 milioni di operatori nella pesca artigianale a livello mondiale, nella pesca industriale i posti di lavoro sono solo 500.000 (e spesso sfruttati, come evidenzia il rapporto Misery at Sea sulle navi taiwanesi). I mega-pescherecci possono rastrellare 300 tonnellate di pesce in un giorno, con reti lunghe centinaia di metri. I pirati del mare sono privi di scrupoli: pescano in aree vietate, catturano animali sotto taglia, ricorrono ad attrezzature inquietanti – tonnara volante, palangaro derivante, rete da traino, draga turbosoffiante – che raschiano i fondali e comportano molte catture accidentali di specie indesiderate. E’ il fenomeno del by-catch che riguarda milioni di tonnellate di animali, rigettati in mare morti o agonizzanti. Nelle reti finiscono anche tante specie protette: delfini, tartarughe, uccelli marini.
Tornando al rapporto Fao, il futuro della produzione di pesce dovrà affrontare, oltre alla pesca eccessiva e illegale, parecchie altre incognite, come l’impatto dei cambiamenti climatici, il degrado dell’ambiente marino (si pensi al flagello della plastica (è vitale superare l’usa e getta), l’invasione di specie non native. Il 35% dei pesci entra nel commercio globale, con Unione Europea, Usa e Giappone come principali importatori, e la Cina come prima produttrice ed esportatrice ittica. La catena del freddo che solca mari e terre dà il proprio contributo al caos climatico: nel 2012, oltre 172 milioni di tonnellate di CO2 (lo 0,5% delle emissioni totali all’epoca) sono state emesse dalle attività di cattura; e nel 2010, 385 milioni di tonnellate di gas serra per l’acquacoltura.
Un importante studio della Fao, pubblicato nel luglio 2018, con la partecipazione di 100 scienziati, dal titolo Impacts of climate change on fisheries and aquaculture, anticipa che entro il 2050 i cambiamenti climatici avranno alterato la produttività di molte attività di pesca marina e di acqua dolce. Il potenziale produttivo globale delle zone economiche marine in relazione a questo fattore potrebbe diminuire in media del 12% – ma con danni assai maggiori nelle aree tropicali. Le cause: variazioni della temperatura dell’acqua e dei livelli di pH, cambiamenti nella circolazione oceanica, innalzamento del livello del mare, diffondersi di malattie acquatiche. Anche i sistemi idrici interni e l’acquacoltura potranno entrare in stress.
Lo studio si concentra su 13 grandi aree marine e fornisce strumenti di adattamento (istituzionale, economico e tecnico) per ridurre l’impatto e aumentare la resilienza del settore. Per esempio, il Mozambico dovrebbe: promuovere l’acquacoltura come risposta al declino degli stock ittici e all’aumento della domanda; facilitare il rinnovo degli stock; avvalersi di tecnologie semplici per i sistemi di allerta cicloni; diversificare verso altri settori economici. Nell’Oceano pacifico, si tratterebbe di affrontare il degrado degli habitat costieri, arrestare la distruzione del sistema delle mangrovie, porre fine a pratiche di pesca devastanti e lottare contro l’inquinamento da metalli pesanti. Per il Mediterraneo sarà vitale la diversificazione delle attività produttive verso altri settori.
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