Visioni

Senza frontiere: mettersi in gioco al Fauves! festival

Una performance a Fauves! foto di Musacchio e IannielloUna performance a Fauves! – foto di Musacchio e Ianniello

Note sparse La tre giorni live all'Auditorium parco della musica di Roma

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 2 novembre 2022

Tre giorni di derive sonore capaci di travalicare i confini; un’immersione in un’idea di musica memore della lezione di Duke Ellington, per il quale ne esistevano solo due tipi: quella buona e l’altro genere. Da questa suggestione nasce Fauves!, una produzione Fondazione Musica per Roma e Rai Radio 3, nove concerti al Teatro Studio Borgna negli spazi dell’Auditorium. Un festival vivo, pulsante, per l’attitudine che comunica nei confronti del presente e per la capacità di offrire forti emozioni al folto pubblico accorso. Un invito a mettersi in gioco e stabilire connessioni, non accontentandosi del già sentito, tentando accostamenti, ipotizzando trasformazioni. In un’epoca di crescenti chiusure, qui le frontiere spariscono. Tre live ogni sera, dal solo al duo alla formazione più estesa, aperti e chiusi da un dj set. Le serate sono un crescendo, accomunate dal proporre sempre in apertura nomi italiani, per indagare chi esplora e contamina dalle nostre parti. Le uniche note non entusiasmanti di una rassegna da cerchiare in rosso vengono proprio da qui però, poiché in realtà nessuno dei progetti presentati convince a pieno.

NON COMPLETAMENTE a fuoco l’audioracconto in solo di Gabriele Mitelli, tra eclettici field recordings e l’ombra di Rob Mazurek, così come le trame tra memorie popolari e techno-industrial del duo Antonio Raia-Renato Fiorito e le incaute avventure tra ambient e spiritual jazz di Infernal Mosquitoes. Divertente l’hyper-pop del duo svizzero Oy, tra invenzioni linguistiche e dancefloor evoluto. Dialoghi torrenziali nel flusso glaciale per sax, elettronica e batteria degli inglesi Binker & Moses, memori della lezione del bassista Bill Laswell e capaci di muovere masse imponenti di suono.

Tre concerti ogni sera, dal solo al duo alla formazione più estesa, aperti e chiusi da un dj set. Le serate sono un crescendo, accomunate dal proporre sempre in apertura nomi italiani, per indagare chi esplora e contamina dalle nostre parti.

Travolgenti nella loro sfrontata irruenza, tra attitudine punk e hip-hop, i Wu-Lu da Brixton, Londra: basso, chitarra, voci e batteria, per un’ esplosione di energia che fa alzare in piedi tanti e conquista quasi tutti. South è un pezzo di quelli destinati a restare. Come lo sono Heliocentrics, band seminale per la scena inglese, tra funk, jazz e psichedelia, ipnotici e magistrali nel distillare pura scienza del groove, da qualche parte tra Gong, Can, Ethio Jazz e Sun Ra. La dimensione ultraterrena dell’ensemble è sottolineata dai video che mostrano immagini di apparizioni aliene e affini. Un vero e proprio viaggio cosmico, un evento memorabile.

COME IL SOLO del canadese Eric Chenaux, voce angelica e chitarra sghemba e imprendibile, da qualche parte tra Robert Wyatt, Derek Bailey e un Brasile tutto mentale; tratteniamo il fiato di fronte a questa dimostrazione di grazia: una meraviglia fragile, sempre sul punto di rompersi, abile nel restare miracolosamente in piedi. Splendida chiusura quella del Ben Lamar Gay Ensemble, autore di un free gospel electro soul che fa intravedere nelle ombre del passato barlumi di futuro. La sensazione è che questo festival sia stato l’inizio di qualcosa di importante: ne abbiamo bisogno.

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