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Sentimenti e distanze, il gioco del destino nella steppa mongola

Sentimenti e distanze, il gioco del destino nella steppa mongolaUna scena da «L’ultima Luna di settembre»

Cinema Nelle sale da oggi «L’ultima Luna di settembre», l'opera prima di Amarsaikhan Baljinnyam

Pubblicato circa un anno faEdizione del 21 settembre 2023

Sul punto più in alto di un villaggio situato nella provincia del Hėntij in Mongolia, un uomo compie uno strano gioco di equilibrio. È in piedi su un cavallo e ha una lunga asta in mano. Sulla punta estrema, verso il cielo, è attaccato un telefono che squilla a vuoto. È l’unico modo per comunicare con chi si è trasferito in città o, comunque, con chi è lontano da quel luogo, posto ai cosiddetti margini del mondo. Dopo vari tentativi, a ricevere la chiamata è Tulgaa che, in quel momento, sta riflettendo sulla sua relazione sentimentale. Finalmente risponde, dopo che dalla luce del giorno si è passati al buio della sera. Gli viene detto che il padre sta male e che è necessaria la sua presenza. La persona che ha composto il numero non aggiunge altro, anche perché è in una posizione molto scomoda. L’ultima Luna di settembre di Amarsaikhan Baljinnyam (nel doppio ruolo di regista e attore principale) inizia perciò con un forzato ritorno alle origini. Tulgaa ora si trova nella iurta di chi lo ha cresciuto, di un padre adottivo forse severo ma al quale non è mai mancato l’amore, persino quando suo figlio ha scelto di andarsene altrove. Le ultime parole del vecchio contadino compongono una specie di testamento senza eredità. Niente dovrebbe trattenere Tulgaa a rimanere un giorno di più, se non fosse che sorprendentemente si prende l’incarico della raccolta del fieno prima che sorga, appunto, l’ultima Luna di settembre. Che voglia allontanarsi dalla sua compagna e dal lavoro di direttore di un hotel a cinque stelle o che si tratti di un’improvvisa nostalgia per quella terra abbandonata tempo fa, resta il fatto che l’uomo è determinato a svolgere il nuovo compito. Ed è con la falce in mano che incontra Tuntuulei, un bambino di dieci anni che a cavallo guida le pecore del nonno. È l’altro protagonista.

I DUE MOSTRANO un’evidente specularità. Sono cresciuti senza un padre naturale, delle loro madri non vi è traccia, entrambi sembrano perennemente fuori contesto, che vivano in un paesaggio sperduto o in una città popolosa. L’uno si può rispecchiare nell’altro, e se Tulgaa scorge il riflesso di ciò che è stato, Tuntuulei può intravedere ciò che potrebbe essere. A prima vista, soprattutto per l’ambientazione suggestiva e per le figure che animano il quadro, L’ultima Luna di settembre pare un prodotto eccentrico rispetto al cinema mainstream. In realtà, non è del tutto così. A partire dalla narrazione e dallo sviluppo di una vicenda che nei suoi tre momenti principali è assimilabile ai più classici lavori hollywoodiani. Come in tanti film d’avventura, d’azione, di fantascienza e, naturalmente, nelle commedie e nelle love story, anche qui si parte dall’incontro improbabile tra due individui distanti che solo un accidente dell’esistenza poteva collocare sulla stessa traiettoria. E a una prima fase nella quale almeno uno dei due si pone in modo guardingo, immediatamente dopo scatta quel reciproco bisogno di conoscersi meglio, di sentirsi parte di un unico destino.

E, COME da tradizione, a un certo punto accade qualcosa che divide i personaggi e li riconduce alla solitudine di partenza. Una movenza hegeliana, si potrebbe azzardare. Infatti, nel percorso dialettico nulla rimane come prima, anche se dà l’impressione di essere una ripetizione. Tulgaa e Tuntuulei dopo la fase della negazione, sono nuovamente insieme, arricchiti delle proprie esperienze. In questo andamento ondulato, però, non si raggiunge la comprensione del «sapere assoluto», ogni scelta subisce gli strattoni dei sentimenti e delle necessità, di libere deviazioni e di incastri della vita dai quali è difficile districarsi.

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