È sempre la storia del marziano a Roma di Flaiano: per qualche giorno, al massimo per qualche settimana, un certo argomento è al centro dell’attenzione – lo si ritrova ovunque, sui giornali, alla radio e ovviamente sui social, e tutti ne discutono con passione. E poi basta, si capisce che quel certo tema ha passato il suo tempo ed è arrivata l’ora di dire: Scansati, avanti il prossimo. E invece, forse questo è il momento giusto per guardare in faccia il «marziano» e capire com’è fatto, da dove viene, se è qui per restare o se si è trattato solo di una tappa nel suo viaggio intergalattico.

Parliamo in questo caso delle «correzioni» inflitte ai testi di Roald Dahl, Ursula K. Le Guin, Ian Fleming, RL Stine (l’autore dei Piccoli brividi, una delle collane per ragazzi di maggior successo degli anni Novanta e oltre) e di chissà quanti altri che non hanno fatto notizia. Vale la pena parlarne, e non solo perché Roald Dahl dall’oltretomba potrebbe mandare un enorme alligatore a divorare coloro che hanno osato cambiare (ben più di) una virgola dai suoi romanzi, come lo scrittore aveva minacciato in una conversazione del 1982 con il grande artista Francis Bacon.
Più banalmente è il caso di mantenere desta l’attenzione, perché – lo ha scritto su El País Tommaso Koch – in ballo, con la reputazione di un autore, c’è un universo multimediale in vista, corredato da una quantità stratosferica di denaro, in particolare per quello che riguarda l’autore del GGG.

Non parliamo più solo dei 300 milioni di copie di libri di Dahl vendute nel mondo, ma di «film e televisione d’animazione e live-action, editoria, giochi, esperienze immersive, teatro dal vivo, prodotti di consumo e altro ancora» secondo l’annuncio dato da Netflix nel 2021 al momento dell’acquisizione della Roald Dahl Story Company per più di 500 milioni di euro.
Di fronte a una scommessa di questo tipo, è evidente che ogni parola conta, e urtare la sensibilità di qualcuno rischia di tradursi in perdite economiche più o meno grandi: da qui, e non solo dal rispetto verso le innumerevoli diversità che ci contraddistinguono, nasce quella che a molti appare come una censura o almeno un attacco al principio dell’autorialità. (Principio, detto fra parentesi, già attaccato un’infinità di volte, basti pensare alle sforbiciate cui venivano sottoposti i romanzi della benemerita collana Urania).

Il problema è che appunto le sensibilità sono innumerevoli, come fa notare Koch citando l’editor Arianna Squilloni: «Nella versione ora rielaborata delle Streghe, si dice che una donna soprannaturale può lavorare come scienziata. L’originale era una cassiera di supermercato. Ma cosa c’è di male in questa professione?». Di sicuro i «correttori» hanno pensato a quello che viene definito «l’empowerment femminile», senza rendersi conto in questo modo di gettare uno stigma su un mestiere onorevole e di riconosciuta utilità.
Già, i «correttori», anzi (l’inglese pervade) i sensitivity readers, ovvero – come ha scritto giorni fa Lucy Knight sul Guardian – «il ruolo più polarizzante dell’editoria». Ingaggiati dagli editori «per dare consigli editoriali riguardo a contenuti che potrebbero essere considerati offensivi, imprecisi o stereotipati» (leggi: per evitare grane legali o attacchi controproducenti per le vendite), questi lettori particolari sono forse meno cattivi di quanto spesso vengano dipinti, almeno a quanto racconta una di loro, Helen Gould, «che offre consulenza su temi quali la razza e la salute mentale» e sottolinea come gli autori a cui è stata affiancata siano sempre stati d’accordo con i suoi suggerimenti.
Difficile farlo con i morti, però. Il rischio, oltre tutto, è di vedersela con il grande alligatore.