Comincia con una sedia vuota. Finisce con un tabellone dei voti in cui metà delle luci sono spente. Due istantanee che restituiscono per intero il senso di un trionfo atteso e preparato mutatosi alla fine nella mestizia di una di quelle vittorie che pesano più delle sconfitte.

Su quella sedia vuota, proprio al centro dei banchi del governo, doveva sedersi Matteo Renzi, per poi prendere la parola di fronte al Paese in festa e rivendicare il merito di aver sgominato la melmosa truppa di frenatori attenti solo alle prebende. Il vecchio che finalmente arretra di fronte all’avanzata impetuosa di un capo capace di indicare una data, l’8 di agosto, e poi rispettarla come un cronometro. E le televisioni lì, a immortalare lo storico momento e mettere in diretta comunicazione il condottiero col Paese, ché certo non era ai senatori, mestieranti loschi della politica, che il generalissimo intendeva rivolgersi. A quelli, nella sceneggiatura di palazzo Chigi, toccava la parte ingrata dei felloni vinti.

La sedia è rimasta vuota. Il discorso al popolo acclamante sarà per un’altra volta, quando la riuscita dello spettacolo sarà garantita. Stavolta no, non ci si poteva neppure sperare. E’ stata la stessa truppa del presidente, i senatori del Pd, a sconsigliare lo show. Con una riforma, per dirla con Loredana De Petris di Sel, «imposta dalla maggioranza alla minoranza e dal governo alla maggioranza», c’era il caso che i fischi soverchiassero gli applausi. Con l’economia di nuovo a picco, c’era da scommettere che qualcuno avrebbe posto importune domande sul perché, invece di mettere mano ai capitoli urgentissimi, il Dinamico abbia preferito perdere mesi dietro a un riforma di limitatissima utilità.

Poi, c’era lo spettro di quel desolato tabellone mezzo spento, e neppure quello avrebbe giovato allo spettacolo. Non è mica la prima volta che qualche gruppo parlamentare sceglie di non partecipare al voto, revocando così in dubbio non la qualità della legge ma la legittimità stessa della procedura. Però di solito non capita quando ci sono di mezzo le riforme costituzionali, perché quello è un comparto in cui, se viene messa in forse la legittimità sostanziale, il fallimento è garantito in partenza. Le Costituzioni servono appunto a tenere insieme, devono offrire un terreno comune a tutti o quasi. Se le applaude solo chi le ha scritte, valgono un po’ meno della carta straccia.

Almeno a disertare fosse stato un solo partito, anche forte ma isolato: in quel caso si fa presto a bollare di sabotaggio e cronica mancanza di senso dello Stato i reprobi. Invece a non votare sono tanti, e troppo diversi tra loro per ipotizzare una comune intelligenza: c’è il Movimento 5 Stelle ma anche la Lega, C’è il Gruppo Misto-Sel, il Gal, che per essere stato costruito nei laboratori di Arcore si è poi rivelato molto meno obbediente dei liberi senatori del libero Pd.

Non basta: perché poi ci sono pure i dissidenti, e non si accontentano di sdegnare la scheda. Prendono la parola “in dissenso”, e uno dopo l’altro mitragliano non solo la sostanza della riforma, ma anche la dissennata procedura con cui la si è approvata affrontando regolamenti col manganello. I ribelli del Pd ancora ancora salvano le forme e fanno finta di riconoscere al presidente Grasso una conduzione, se non proprio impeccabile, almeno tollerabile. Augusto Minzolini, che parla per i dissidenti dell’altra sponda, non si perita. Dice quello che a palazzo Madama sanno tutti ma che non sta bene affermare a voce alta. Rinfaccia a Grasso una per una le scorrettezze di cui si è reso artefice. Lo liquida come versione riveduta e corretta dell’eterno Abbondio.

Sin qui il copione atteso, che bastava e avanzava per tenere lontano don Matteo. Poi sono arrivate le sorprese. Chi l’avrebbe mai detto che la senatrice a vita Cattaneo si sarebbe lanciata in una simile requisitoria? «Sono arrivata senza un giudizio sulla riforma, decisa a seguire i lavori e poi decidere. Ma sia per i contenuti del testo sia per il metodo con cui la si è varata non posso che votare contro» con l’astensione. Segue un atto d’accusa durissimo, che lascia la maggioranza a bocca aperta. Non per modo di dire: seduto al suo fianco Mario Monti spalanca le labbra sempre più via via che il j’accuse prosegue e s’indurisce. E’ una condanna senza appello, quella della scienziata, tanto più dolorosa perché lei certo non la si può accusare di parlare solo per partito preso.

E che dire di Roberto Calderoli, che sarebbe co-relatore, però si astiene (che al Senato è appunto come votare contro)? Serafico, denuncia pressioni di ogni tipo e se non fa il primo nome dello Stato poco ci manca: «Mi hanno telefonato tutti, tranne il Papa». Poi fingendosi affabile minaccia: «Se alla Camera la legge migliorerà l’astensione diventerà voto a favore. Se peggiorerà sarò nemico di questa riforma. Sta a voi decidere». Il voto finale è impietoso: 183 sì. Lontanissimi dalla maggioranza di due terzi necessaria per fare del referendum confermativo una gentile concessione del nuovo onnipotente. Sarà un referendum obbligatorio e dunque vero, non un plebiscito.

Finisce così una battaglia che il governo ha voluto campale, e il cui risultato reale si leggeva ieri nella facce meste della ministra Boschi e della presidente Finocchiaro. Tutta la giostra dell’ultimo mese è stata in realtà tempo perso. La riforma dovrà cambiare alla Camera, poi tornare al Senato. Insomma il primo giro ha ancora da cominciare, perché le letture, alla fine, non saranno 4 ma, bene che vada, 5. E l’Italicum è ancora tanto in alto mare che Pd, Fi e Ncd hanno concordato ieri di rinviarne l’esame, anticipando il provvedimento sulla Pa. La legge elettorale verrà approvata per dicembre. Forse.
Il giorno del trionfo si chiude così con un bilancio da Lehman Brothers. La riforma è pessima. Ha spaccato il Parlamento e spaccherà il Paese soprattutto grazie alla strategia muscolare del suo inventore. E non sarà neppure rapida: per non sprecare un mese a trattare con mezzo Senato, Renzi ne perderà sei con la quinta lettura. Complimenti, presidente.