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Semi di pace tra Libano e Kurdistan

Medio Oriente A Kobane si semina, in Iraq fioriscono gli orti di prossimità e nella valle della Bekaa un collettivo ha messo insieme profughi siriani e contadini locali

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 5 luglio 2018

Tutte le guerre stravolgono e deturpano, cambiano, per forza di cose, abitudini alimentari, stili di vita, determinano radicali sconvolgimenti nelle vite delle persone. Tutto questo è stato ancor più vero in Medio Oriente. Palestina, Libano, Iraq, Iran, Siria, tutti paesi toccati da guerre interminabili.

Solitamente si pone l’accento, da parte degli analisti, sui macrofattori energetici come il petrolio, una delle cause scatenanti dei conflitti. Più recentemente, è stata colta da analisti più avvertiti la questione del controllo dell’acqua. Nessuno si è cimentato con i cambiamenti che sono avvenuti sulle tavole, le abitudini alimentari, negli orti e nei campi dei vari paesi della regione.

Attraverso testimonianze dirette, esperienze di chi in diversi paesi di quella che era la Mezzaluna fertile ha trascorso anni o è stato parte importante di progetti davvero interessanti, vale davvero la pena raccontare alcuni aspetti della vita negli orti che sono sconosciuti ai più. Innanzitutto la premessa. La terra e i suoi prodotti quando si parla di guerre – guerre tra stati come tra Iran e Iraq, guerre civili come quella in Libano e in Siria o il conflitto arabo-israeliano – sono oggetto di attacchi mirati, di raid aerei, avvelenamenti e bombardamenti tesi a distruggere le basi stesse di sussistenza delle popolazioni che vivono nei territori controllati dalla fazione avversa.

Così ha fatto Saddam Hussein sulle terre dei curdi, così Assad sulle terre controllate dalle opposizioni, così hanno fatto gli israeliani con lo sradicamento degli ulivi e la sottrazione dell’acqua ai danni dei palestinesi, così gli americani in Iraq. Una delle prime direttive quando gli Usa si installarono a Baghdad – emanata da Bremer, il governatore – fu quella di vietare la riproduzione di sementi autoctone, scatenando una vera e propria guerra alla biodiversità mesopotamica.

CE LO RACCONTA ANGELA ROSSI, un’operatrice dell’informazione che, per motivi di lavoro, da molti anni fa la spola tra l’Italia e il Kurdistan iracheno. Angela, al suo arrivo, cinque anni fa, notò la pressoché totale assenza di verdure locali dai mercati. Gli orti di prossimità erano inesistenti. La guerra aveva arato alla lettera terre e conoscenze, antiche abitudini alimentari, sradicate e soppiantate da altre. Il riso, derivante dagli aiuti dell’Unhcr, andava sostituendo il grano precedentemente coltivato, i polli sostituivano anatre ed oche. Una desolazione e un appiattimento totali.

Angela ci racconta delle sue esperienze al mercato, dei suoi contatti, malgrado l’assoluta ignoranza della lingua, con le donne locali. Per i curdi, il basilico è una essenza che si usa efficacemente come antitarme, non è assolutamente usato come aroma culinario. Confabulando a gesti, racconta, orgogliosa, di come insegnò a fare la passata di pomodoro usando anche il basilico. Fu felice, quando, al ritorno da uno dei suoi rientri in Italia, una signora da un balcone agitava il suo barattolo di pelati. Con gli anni le cose stanno migliorando. Il nuovo governo sta puntando con forza sull’agricoltura di sussistenza, prima molto arrivava dall’Iran e dalla Turchia, ma con la situazione politica in costante fluttuazione non si può di certo contare sulle importazioni.

Angela dice che stanno, finalmente, rinascendo ed infittendo gli orti di prossimità, si recupera la coltivazione del grano, nei mercati scompare il riso degli aiuti umanitari e appaiono prodotti locali. Riprende anche l’allevamento. Ci parla anche di una cooperativa biologica italiana, sono veneti gli operatori, che fanno formazione verso un’agricoltura sostenibile e sono incoraggiati dal governo. Da quell’unico venditore ambulante libanese che, solo, col suo furgone, proponeva nel mercato di Duhok, una delle città più importanti con Erbil e Suleimanya, i suoi prodotti dell’orto, adesso tanti hanno ricominciato a coltivare ed allevare. Le galline, allevate all’aperto, le carpe nelle anse dei fiumi, sono un esempio di come la ripresa passi da pratiche sostenibili.

DALL’ALTRA PARTE DELLA FRONTIERA, nel Kurdistan siriano, il sognato Rojava, adesso sotto pesante attacco turco, sono stati i contadini per la campagna Semi per Kobane ad attivarsi nel periodo cruciale dell’assedio della città da parte delle milizie di Daech. Si sono impegnati per far pervenire sementi, soprattutto orticole a crescita rapida, racconta uno degli ideatori, Luca Ferrero, esponente dell’Asci, associazione per la solidarietà della campagna italiana. Le sementi sono state raccolte, frutto di un dono, durante vari eventi di scambio di semi in giro per l’Italia, idea nata proprio a Torino alla Babele di semi e poi estesa ad altri. I semi sono arrivati, sono stati diffusi tra i contadini.

Aggiungiamo a queste storie quello che sta accadendo in Libano, nella valle della Bekaa: la racconta il mensile ecologista Silence, uno dei più autorevoli ed informati sulle realtà nonviolente e militanti di Francia. «Juzuruna Buzuruna», che significa «i semi sono le nostre radici», è un collettivo di contadini e orticoltori che si sono messi insieme per coltivare seguendo metodi biologici, radunando profughi siriani e contadini libanesi. L’idea del collettivo, in via di consolidamento e crescita, è venuto a Ferdinand e Zoè, due ragazzi francesi. Essi hanno trovato un modo originale di procurarsi buone sementi non ibride organizzando Graines et cinema, potete visitare la loro pagina Facebook. Girano la Francia proiettando i loro documentari e raccolgono sementi nel corso delle loro tournée. Ferdi e Zoè fanno la spola tra la Francia e il Libano, a «Juzuruna Buzuruna» si tengono di continuo laboratori, corsi di aggiornamento: proprio laddove la guerra ha dilapidato conoscenze antiche, la valle della Bekaa, alle spalle del monte Libano, dove si trovano gli ultimi cedri in un’area naturale protetta. Era anche la valle della produzione di uno dei migliori vini del Mediterraneo ai tempi dei Romani, sono ancora visitabili le vestigia del tempio a Bacco. Abbiamo sentito Zoè e Giulia, una orientalista italiana che da tanti anni studia in Libano. Ci raccontano con più precisione di come, in occasione di una festa dei semi un paio d’anni fa, abbiano pensato a metter in piedi a qualcosa che potesse ovviare in un colpo solo a due criticità apparentemente insolubili. La prima: il Libano ospita una quantità enorme, rispetto alla propria popolazione, di rifugiati siriani, avendo già conosciuto il dramma dei profughi palestinesi, almeno tre devastanti guerre civili, non è proprio, questa reciproca diffidenza e paura, un buon viatico di pace. L’altra criticità è il sostentamento dei numerosi campi di rifugiati. Quella festa dei semi proseguì con laboratori di formazione che durarono tre giorni. Lì, a Saadnayel, nel cuore della valle della Bekaa, dove le differenti comunità del mosaico libanese vivono a pochi chilometri, Zahlè, a quindici km, è una cittadina cristiana, si posero le basi per una serie di orti di comunità che sono andati infittendosi. Sconfiggendo anche la diffidenza verso l’agricoltura biologica, Zoè e Ferdi Beau, due fratelli dalla banlieu parigina, hanno messo a dimora il primo seme. Ora la scuola d’orticultura di Juzuruna Buzuruna è gestita, in piena concordia, da libanesi e rifugiati siriani. E con due progetti Soils e Amel hanno dato vita a una serie di micro giardini diffusi volti proprio all’autosostentamento dei campi. Abbiamo proposto, ed essi hanno accettato, di estendere la loro acquisizione di buone sementi adatte all’aridocultura, pratica prevalente in Medio Oriente, anche all’Italia. Opportunamente, Coltivar Condividendo dal bellunese ha accettato di invitare esponenti di Juzurna Buzurna a Seren Del Grappa per l’ultima domenica di novembre alla grande manifestazione Chiamata a raccolto. Far conoscere realtà come queste è il contributo dei seedsaver italiani alla buona causa della sovranità alimentare e della biodiversità.

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