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Sembrava una famiglia perfetta

Sembrava una famiglia perfettaUna scena da "Moi, Pierre Rivière" di René Allieo

Habemus Corpus Perché? Perché è la domanda più semplice e diretta che viene da fare in un caso così. Rispondere, per noi, adesso, è impossibile.

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 10 settembre 2024

Non tutti gli omicidi sono uguali. Alcuni incidono la memoria, collettiva e personale, in modo indelebile. Sono quelli che avvengono per mano di un figlio. È stato così per Doretta Graneris che nel 1975, a 18 anni, sparò a genitori, nonni e fratello uccidendoli tutti, fu così per Pietro Maso che a 19 anni, nel 1991, per impadronirsi dell’eredità uccise padre e madre a colpi di spranga e bloccasterzo, è stato così per Erika Nardo che, a Novi Ligure accoltellò la mamma e il fratellino. Era il 21 febbraio 2001, Erika aveva 16 anni.

Lo sbigottimento collettivo si è ripetuto lo scorso primo settembre quando ci siamo svegliati leggendo che un ragazzo di 17 anni, a Paderno Dugnano, in una villetta costruita dall’impresa del padre e del nonno, in una via semi privata, in una famiglia senza problemi di denaro, che aveva appena fatto vacanze felici, festeggiato con amici e parenti i 51 anni del padre, quel ragazzo nella notte si alza, scende in cucina a prendere un grosso coltello da carne, risale e, con 68 coltellate, ammazza prima il fratello di 12 anni che sta dormendo nel letto accanto al suo, poi la madre e il padre accorsi a vedere che cosa sta succedendo. «Li ho uccisi perché mi sentivo un estraneo», dirà il ragazzo agli inquirenti che lui stesso chiama dopo i delitti.
Perché? Perché è la domanda più semplice e diretta che viene da fare in un caso così. Rispondere, per noi, adesso, è impossibile. Possiamo fare congetture, ipotizzare, interpretare, ma nessuno può dare risposte. Per questo ho evitato di leggere le interpretazioni date subito dopo da psichiatri, criminologi, psicologi che, come tutti noi, non avevano altri elementi che gli articoli dei giornali.
Ho invece fatto un’altra cosa. Sono andata a cercare il libro di Michel Foucault Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma soeur et mon frère. Non l’ho trovato, chissà dov’è finito, e così ho cercato il film, ispirato a quel saggio e a quel caso, diretto da René Allieo uscito nel 1976.

Il 3 giugno 1835, nella campagna della Normandia, Pierre Rivière, 20 anni, contadino che il paese ritiene idiota, un po’ matto e semi analfabeta, sgozza con un falcetto la madre, incinta al sesto mese, la sorella di 18 anni e il fratello di 7. Poi scappa nei boschi, per un mese si nutre di radici fino all’arresto che avviene un mese dopo. In carcere, dopo l’interrogatorio, chiede un tavolo, carta, penna, calamaio e comincia a scrivere tutto, come ha commesso i delitti e perché, iniziando dal matrimonio tormentato e infelice dei suoi genitori. È un memoir lucidissimo che sorprende, come scrisse Foucault, per la straordinaria coincidenza fra azione e linguaggio. Pierre Rivière non solo non era analfabeta, ma era perfettamente consapevole che il suo delitto, che trova riprovevole, nasceva dall’odio per la madre che dal suo racconto esce come una manipolatrice in perenne conflitto con il mondo, il marito, i genitori e del tutto disinteressata a quasi tutti i figli, compreso Pierre.

Non si possono paragonare il caso Rivière con quelli di oggi. Troppe le differenze di ambiente, educazione, periodo storico, condizioni di vita. Identico, invece, è lo sgomento della società, la fatica a trovare risposte chiarificatrici. Pierre Rivière i segnali di malessere li aveva mandati, ma li capiva soltanto lui e, soprattutto, non li raccontava a nessuno. Solo dopo, a tragedia avvenuta, scrisse ciò che sentiva, come in una catarsi tardiva che comunque per lui non arrivò mai. Si impiccò in cella cinque anni dopo la condanna all’ergastolo per parricidio.

mariangela.mianiti@gmail.com

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