«Mi sono dedicata a pensare a come le protagoniste potessero sentirsi, a cosa volessero, alle relazioni delle une con le altre, alle modalità in cui si sarebbero svolte le loro vite se non fossero state incatenate alle identità che l’eteropatriarcato aveva assegnato loro».
L’autrice statunitense Selby Wynn Schwartz è in Italia per presentare Le figlie di Saffo (Garzanti, pp. 264, euro 18, traduzione di Maria Giulia Castagnone) al festival «Libri Come» – sabato, alle ore 17, con Elena Stancanelli. Un intreccio di biografie di artiste lesbiche che diventano protagoniste di un testo ibrido, sospeso tra cronaca e romanzo.

Nel suo libro, il punto di vista che adotta, l’uso del «noi», rimanda al coro delle tragedie greche, un coro di ragazze. Può parlarci di questa sua scelta?
Spesso il coro nella tragedia greca è posto a lato dell’azione: commenta, teme, si lamenta. Volevo invece un coro che a volte occupasse anche il centro del palcoscenico e che fosse inoltre capace di agire, soprattutto di trasformarsi e diventare. Il «noi» è un collettivo di voci che si evolve nel tempo, imparando ad andare oltre i giardini di casa dove si è letta Saffo per la prima volta. Alla fine, sperimentando, sbagliando e cercando l’ispirazione, il coro riesce a scrivere la propria vita.

Il greco antico, la sua grammatica, sono tra gli elementi che connettono le numerose storie che racconta nel suo libro. In un periodo in cui gli studi classici sono considerati sempre più inutili, si tratta di una vera e propria inversione di tendenza. Che ne pensa?
Sono davvero debitrice nei confronti della poeta canadese, studiosa di lingue classiche e traduttrice Anne Carson, che ha tradotto i frammenti di Saffo in inglese. Nei suoi libri dimostra la straordinaria capacità di riportare in vita i testi antichi. Sto notando, poi, che le riscritture di miti greci in chiave femminista sono molto in voga, per esempio la nuova traduzione di Omero fatta da Emily Wilson oppure Circe di Madeline Miller, per citarne solo alcune.

Lei stessa definisce il suo testo un ibrido: «tra il romanzo di immaginazione o il romanzo-verità» collega le biografie di artiste, scrittrici e attrici lesbiche in un vero e proprio labirinto d’amore…
La struttura è intrecciata in due sensi: le esistenze delle donne di cui scrivo erano connesse nella realtà storica; le ho ulteriormente collegate nel momento in cui le ho trasformate in personagge, creando anche un mondo immaginario in cui le loro idee, creazioni, relazioni ed esplorazioni a cui si sono dedicate nel corso delle loro vite diventano una narrazione collettiva.

A un certo punto il coro si domanda: «potevamo davvero credere che tra tutte quelle onde, esistesse l’isola che ci eravamo inventate?». Il riferimento è alla scelta di Sibilla Aleramo o di Nora, la protagonista di Casa di bambola, di lasciare la propria abitazione e il marito. Quanto è ancora spaventoso, secondo lei, il futuro per una donna sola oggi?
Ci sono tante cose che generano paura e per le quali provare rabbia, ma credo che sia anche importante concentrarsi su ciò che può offrire speranza. Per esempio, sul fatto che siamo in grado di immaginare quell’isola, che l’abbiamo inventata, che siamo portatrici di utopia. Per me una delle maggiori ragioni di speranza è, per esempio, il collettivo transfemminista italiano Non Una di Meno. Quando ho creato in questo libro la storia di Lina Poletti ho immaginato che il suo spirito fosse ancora con noi, che lei facesse parte di Non Una di Meno.

In un’intervista a Eleonora Duse che lei riporta nel libro, l’attrice italiana dice che in Italia «le donne sono attanagliate dalla rabbia». Nel suo testo, però, la rabbia è un’emozione quasi assente dalle vite delle protagoniste. Per quale motivo?
Il personaggio di Lina è spesso in preda alla rabbia femminista: non sopporta, per esempio, gli stupri di guerra. In altri momenti, ho preferito canalizzare quel sentimento, trasformandolo in ironia, perché credo che uno dei modi possibili per confrontarsi con un sistema oppressivo, come quello eteropatriarcale, sia ridicolizzarlo, mostrando quanto sia assurdo in realtà. Si tratta di immaginarlo come un pallone da bucare sfruttando l’idiozia che lo connota e poi di godersi il momento in cui lo si può osservare sgonfiarsi. Per questa ragione, per esempio, racconto la storia di Noel Pemberton Billing, che perseguitò ferocemente le persone queer, scrivendo che «non era il tipo da riconoscere una passione lesbica neanche se fosse andato a sbattervi contro», cioè attingendo il più possibile al sarcasmo.

Nel suo libro non ci sono uomini: si tratta di una scelta davvero radicale, separatista…
Ammetto che ho lasciato fuori Gabriele d’Annunzio proprio per cattiveria! Più in generale, però, per me è stato un esperimento ragionato: immaginare le storie di queste donne come se gli uomini per loro non fossero stati di primaria importanza. Secondo ciò che evidenzia Elena Ferrante, la scrittura femminista non parte dal presupposto che le donne siano migliori – inoltre, essenzializzare la categoria «donne» è pericoloso – quanto piuttosto dall’opposizione a un sistema che confina alcune storie ai margini.