Seid, storia di razzismo e disagio
Il suicidio di un giovane ex calciatore italoetiope e il suo atto d’accusa, scritto anni fa, contro la xenofobia
Il suicidio di un giovane ex calciatore italoetiope e il suo atto d’accusa, scritto anni fa, contro la xenofobia
Vent’anni, un passato da promessa del calcio e forse un peso infame da sopportare: «Ovunque vada sento sulle mie spalle, come un macigno, gli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone», aveva scritto anni fa. Seid Visin si è suicidato venerdì sera a casa sua, a Nocera Inferiore. Il padre, Gualtiero Visin, funzionario della Uiltec, nega che il razzismo e la discriminazione siano alla base del suicidio del suo figlio adottivo.
Seid era nato in Etiopia nel settembre del 2000, arrivato in Italia a sette anni, è stato adottato. Aveva quindici anni quando gli agenti Enzo e Mino Raiola lo notarono durante una delle partitelle tra i ragazzini della scuola calcio Azzurri di Torre Annunziata: il ragazzino fu proposto a Manchester United, Napoli, Inter e Milan. Andò a giocare nelle giovanili rossonere, ma dopo pochi mesi decise di riavvicinarsi a casa e finì nella selezione under 17 del Benevento. Poi basta. Gli era bastato poco per decidere che il mondo del calcio non faceva per lui, anche se ancora in molti lo ricordano come un centrocampista di quelli che «danno del tu al pallone», longilineo ed elegante, fiato e lampi di classe.
Il testamento di Seid è stato riportato alla luce dalla sua psicoterapeuta Rita D’Antuono, che ha ricondiviso su Facebook un post che Seid aveva scritto nel gennaio del 2019: una disamina che, con spietata precisione, racconta quella che è la vita in Italia di un ragazzo dalla pelle nera.
«DI FRONTE A CERTI FATTI, sconvolgenti, dolorosi, siamo portati a cercare spiegazioni, informazioni dettagliate, particolari minuziosi, per poter dire a noi stessi che è successo per “quel” motivo. Abbiamo bisogno di sapere perché, ma, in fondo, abbiamo bisogno di sapere se c’è qualche probabilità che capiti anche a noi. E allora per rassicurarci, per prendere le distanze, iniziamo a raccontarci (e a credere) che sia successo per un motivo specifico. Ché dire a noi stessi che potrebbe capitare a chiunque, compresi noi, sarebbe troppo difficile da tollerare», scrive D’Antuono su Facebook.
«Prima di questo grande flusso migratorio – si legge nel post del ragazzo – ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con un grande gioia, rispetto e curiosità». Poi però le cose hanno preso un’altra piega. È cresciuto, si è scontrato con il mondo, a volte perfido, degli adulti. E aveva bisogno di aiuto psicologico. E poi c’è sempre la retorica dell’invasione, l’abisso di notizie spesso false ma comunque utilissime per la campagna elettorale perpetua delle destre, gli inni all’odio, il rispetto che diventa prima sospetto e poi aperta ostilità. La pelle nera che marca la differenza tra il bravo cittadino e il taccheggiatore al supermercato, lo scocciatore al tavolino del bar, quello che non paga il biglietto sul pullman.
L’ATTO DI ACCUSA FIRMATO da Seid è talmente lucido che, appresa la notizia, su Twitter il segretario del Pd Enrico Letta si è sentito di dover chiedere scusa per il clima di odio che rende più difficile la vita dei nostri ragazzi di pelle scura.
Un’analisi, quella di Seid, di una precisione disarmante e che infine tocca il tema centrale di questa stagione politica e civile: la paura. Non declinata come nemico astratto per giustificare il proprio agire, ma come elemento concreto e quotidiano. Scrive Seid: «La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente, persino dai miei parenti che invocavano costantemente con malinconia Mussolini e chiamavano “capitano” Salvini. La delusione nel vedere alcuni amici che quando mi vedono intonano all’unisono il coro “CasaPound”».
Succedeva due anni fa, ma sicuramente non deve essere stato facile per un adolescente l’essere straniero in terra straniera, il non capire come si possa precipitare nel fondo di un abisso. Ma viene da chiedersi perché non abbia trovato l’aiuto necessario, non tanto della famiglia, ma dai servizi di salute mentale.
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