«Sei troppo piccola per mettere lo smalto, appapà»
Habemus Corpus Allocuzione inversa o vocativo inverso, prassi con cui una persona parla a un’altra, quasi sempre un bambino, identificando se stessa anziché l’interlocutore
Habemus Corpus Allocuzione inversa o vocativo inverso, prassi con cui una persona parla a un’altra, quasi sempre un bambino, identificando se stessa anziché l’interlocutore
Capita che se nella vita diventi consuocera, e poi con-nonna, di una signora napoletana, all’improvviso ti trovi immersa in frasi che finiscono sempre con «a nonna», tipo «Su su non piangere, a nonna», «E che, già tieni fame, a nonna?», «Fai il bravo, a nonna». Di conseguenza, capita che la con-nonna, nordica, avverta uno strizzamento di budella linguistiche, ma stia zitta perché sa che, vivendo il pargolo a nord, non resterà intaccato da quell’evocazione così strabordante di sé.
Al «a nonna» si possono sostituire «a papà, a zia, a zio, a mamma» e via navigando per tutto il parentado prossimo. Questa prassi della lingua parlata è molto in uso nel sud Italia, talvolta nel centro, del tutto sconosciuta al nord che ne resta completamente immune. Mi viene in mente un video trovato per caso su un social in cui un padre, parlando con la figlia di circa tre anni tutta orgogliosa di essersi messa dello smalto rosa sulle unghie, le diceva: «Sei troppo piccola per mettere lo smalto, appapà», e la bambina: «No che non sono piccola», e il padre: «Lo sei per lo smalto, appapà», e la figlia: «Non è vero. A me piace», e il padre: «Non va bene, appapà», e la figlia: «Ma si che ti piace», e il padre: «No a me non piace, appapà», e la figlia: «Ah sì? Beh tu fa quello che vuoi, io lo metto lo stesso». Insomma, l’appapà in quel caso non era servito.
Pochi giorni fa, la scrittrice Silvia Ballestra, nata nelle Marche, scriveva in un post: «Nella lingua del posto in cui sono nata ci sguazzo e la ascolto sempre con grande piacere, ma una cosa proprio non la sopporto: questo rivolgersi ossessivamente e insensatamente ai bambini finendo le frasi con “babbo, mamma, nonno, nonna, zio, ecc.”, come se ci si stesse rivolgendo al proprio ruolo e non al bambino. Al mare anni fa c’era un romano che per tutto il giorno dava indicazioni ai figli finendo sempre con “a papà”, tanto che ormai lo chiamavano Appapà. E niente, a parte esprimere il mio disagio linguistico, mi chiedo se questa pratica abbia un nome, in dialettologia (e magari una spiegazione psichiatrica o antropologica)».
Naturalmente si sono sprecati i «Sono d’accordo», «Non lo sopporto», i resoconti tipo «In un parchetto a Roma sentivo le mamme che ormai chiamavano i figli “Mamma” senza neanche più la a davanti. Insopportabile», oppure: «Quando chiedevano a mio nipote come si chiamava, lui ormai rispondeva Appapà».
E poi sono arrivate le indicazioni secondo cui quella pratica è una allocuzione inversa o vocativo inverso, prassi con cui una persona parla a un’altra, quasi sempre un bambino, identificando se stessa anziché l’interlocutore.
Sono in tanti a condividere, inclusa me stessa, il fastidio di Silvia Ballestra e il suo sospetto che tutti quegli Ammamma, Annonna, Appapà tendano più a sottolineare un potere che un affetto, aspetti che, fra l’altro, viaggiano spesso pericolosamente vicini, soprattutto quando si parla di figli e di bambini.
A questo proposito mi viene in mente una confidenza che mi fece una signora incontrata in vacanza. Lei non aveva figli e si era innamorata della nipote, figlia della sorella. «Sa – mi disse – io tengo tantissimo a lei, come tutti noi, perché quando ami così tanto un bambino è normale volergli infilare dentro qualcosa di tuo, che resti per sempre».
Mi vennero i brividi. Pensai a quella bambina vista come un contenitore da farcire con tutte le mancanze e le ansie e le aspettative degli adulti e le augurai di scappare, prima o poi, da quella dittatura degli affetti.
E comunque, anche per marcare una distanza simbolica, la con-nonna si farà chiamare con il suo nome, altro che Annonna.
mariangela.mianiti@gmail.com
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