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Sei Nazioni: Italia, in classifica dopo Tonga e Fiji

Sei Nazioni: Italia, in classifica dopo Tonga e FijiImmagine di un incontro di Rugby da un antico almanacco

Sport Il primo match contro l'Irlanda è già perso per 3 a 26

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 14 febbraio 2015

Sabato scorso l’Italia ha inaugurato la sua sedicesima partecipazione al Sei Nazioni di rugby perdendo per 3-26 contro l’Irlanda. Dal 2000 a oggi, ovvero da quando è stata ammessa nel torneo più antico del mondo, la nazionale italiana ha disputato 76 partite, perdendone 64. Delle undici vittorie, soltanto una è stata conquistata in trasferta: accadde nel 2007, a Edimburgo, mentre l’anno prima era arrivato il primo e unico pareggio a Cardiff contro il Galles. Sempre nel 2007 gli azzurri riuscirono a vincere due match (Scozia e Galles), impresa riuscita ancora nel 2013 (contro Francia e Irlanda). Per 10 volte l’Italia è arrivata ultima, meritandosi il “cucchiaio di legno” e ben sei volte (2001, 2002, 2005, 2006, 2009, 2014) il wodden spoon ha coinciso con il whitewash, termine che indica la squadra che perde tutte le partite in programma.

Le cifre nel rugby sono importanti. Le “onorevoli sconfitte”, termine assai abusato nel descrivere le vicende della nostra nazionale, sono tali solo e se collocate dentro una cornice in cui convivono con altrettante vittorie gloriose, altrimenti il racconto perde di senso. Questa cornice al momento non esiste. Una volta entrata nel circuito del “top-rugby” e del professionismo, l’Italia non è riuscita, se non per brevissimi periodi, a crescere e a risalire la classifica del ranking mondiale dove attualmente occupa la quattordicesima posizione, superata anche da Tonga, Fiji, Giappone e Samoa.

Qualcosa non va. Anche l’affetto e la passione che fino a oggi hanno accompagnato le vicende della nazionale, nella buona ma soprattutto nella cattiva sorte, rischiano di appannarsi. Sabato scorso persino l’Olimpico di Roma non ha potuto esimersi dal salutare con qualche fischio la grigia prestazione di Sergio Parisse e dei suoi compagni contro gli irlandesi. A pesare è soprattutto un sentimento di frustrazione: brutte partite e pochi motivi per sperare in qualcosa di meglio. Qualcuno ha già calcolato in quattro anni il periodo massimo di durata di un allenatore sulla panchina azzurra. Il francese Jacques Brunel – succeduto nel 2011 al sudafricano Nick Mallett che prese a sua volta il posto di Pierre Berbizier nel 2007 – ha già stampata in faccia l’espressione di chi non ne può più: ras-le-bol, dicono Oltralpe, quando più che la rassegnazione può l’esasperazione.

Già, la Francia. Quando gli azzurri cominciarono la loro avventura nel Sei Nazioni, e dopo un fiammante esordio con vittoria contro la Scozia giunse una sfilza di sconfitte, i più fiduciosi invitarono a guardare quanto era accaduto ai cugini francesi. Entrata nel 1910 nell’International Championship, nelle prime cinque edizioni la Francia perse tutte le partite tranne una. Il torneo si fermò per la Grande Guerra e riprese nel 1920 e i francesi presero a scalare le posizioni: in quell’anno giunse la prima vittoria in trasferta (Irlanda), l’anno dopo i coqs vinsero due partite e nel 1927 riuscirono a battere gli inglesi.

Che cosa era cambiato nel frattempo? La risposta è: molto, moltissimo. In Francia il rugby era diventato uno sport di massa. Arrivato alla fine del XIX secolo a Le Havre con i soliti intraprendenti inglesi, da lì il gioco era giunto a Parigi e poi era sceso in Occitania, dove aveva trovato terreno fertile: in ogni paesino nasceva un club e al campionato nazionale si erano presto aggiunti i campionati regionali. Ai rudi vignerons del sud-ovest il rugby piaceva da morire, anche troppo: le rivalità superarono ogni limite consentito e il gioco “maschio” si fece brutale e violento. Nel 1927 e nel 1930 ci furono due morti sul campo.

Persino il gioco del XV de France si era fatto sporco. I club più importanti avevano deciso di chiamarsi fuori dando vita a un campionato a parte e la federazione aveva escluso i loro giocatori dalla nazionale. Era uno scisma a tutti gli effetti e le home unions britanniche, che già non vedevano di buon occhio l’esistenza di un campionato (contrario, soprattutto per gli inglesi, allo spirito del gioco), figuriamoci una deriva violenta, misero alla porta i francesi. Dal 1932 al 1947 niente Francia e niente Cinque Nazioni: nel suo “La fabuleuse histoire du rugby”, uno dei migliori libri mai scritti sul mondo ovale, Henry Garcia parla, non per caso di “generazioni perdute”.

Eppure, nonostante la messa al bando internazionale, al suo rientro in scena nel 1947 la Francia era bella pimpante. Vittoria a Twickenham nel 1951, vari primi posti ex aequo (penalizzata dalla differenza punti), e nel 1959 primo successo assoluto. Grande Slam nel 1968, annus mirabilis. Tra conflitti mondiali e periodi di sospensione causa cattiva condotta, i francesi hanno impiegato trenta edizioni (e cinquant’anni) per conquistare il titolo.

Dunque, se l’Italia ripercorresse il cammino dei suoi cugini, vincerebbe il Sei Nazioni nel 2029. Può farcela? Al momento non pare proprio che ve ne siano i presupposti. Le turbolenze che caratterizzavano il rugby francese nel ventennio tra le due guerre e che i britannici giustamente sanzionarono ne certificavano in qualche modo anche la vitalità, il suo essere parte condiviso di un tessuto sociale e culturale. Tant’è che gli stessi inglesi ritennero di fare proprio, nel 1987, il modello di un campionato per club a struttura piramidale, con a capo la Premiership e più sotto le varie Leghe, da quelle nazionali a quelle di contea. A tutt’oggi, una volta entrati nell’era professionistica, il modello funziona. Ma ancora una volta contano le cifre, i risultati, la qualità di un tessuto che avvolge l’intera società. Contano i soldi che nel rugby vengono investiti, dalla scuola ai club, ma conta anzi tutto il contesto, l’accoglienza che il rugby ha nella società britannica e, seppure in modo diverso e più per aree regionali, in quella francese.

L’Italia ha ancora molto cammino da fare e nel frattempo rischia di perdersi per strada, tra liti di campanile, gelosie, esperimenti (le franchigie) che non riescono a reggere il passo tanto sul terreno economico quanto su quello culturale.

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