Seguendo la priorità di una potenzialità: quella della rivoluzione
SCAFFALE «Dal rifiuto del lavoro alla moltitudine: la filosofia sovversiva di Toni Negri», un volume di Roberto Nigro per DeriveApprodi
SCAFFALE «Dal rifiuto del lavoro alla moltitudine: la filosofia sovversiva di Toni Negri», un volume di Roberto Nigro per DeriveApprodi
Dal rifiuto del lavoro alla moltitudine: la filosofia sovversiva di Toni Negri (DeriveApprodi, pp. 157, euro 17) di Roberto Nigro coglie in maniera precisa, e scevra da pregiudizi, il nostro problema: com’è possibile organizzare una politica rivoluzionaria in un’epoca di miseria? Con chi attraversare un deserto mentre siamo dispersi, divisi e subalterni all’egemonia neoliberale e ai suoi surrogati reazionari, confusionisti o essenzialisti? La questione, questa la tesi del libro, era ben presente a Antonio Negri, scomparso a 90 anni nel dicembre scorso.
Al punto che l’autore di importanti libri come Spinoza, l’anomalia selvaggia, Potere Costituente o Impero (con Michael Hardt) non ha fatto altro che pensarla a partire dagli anni Ottanta, ben prima della fine della guerra fredda, della fine del capitalismo di stato impropriamente definito «comunismo», del lutto duraturo provocato dal suicidio del Pci e della strumentalizzazione di quell’esperienza problematica in un partito neoliberale di massa.
NEGRI, insieme ai suoi compagni dell’Autonomia Operaia, ha subito sulla sua pelle la violenza della repressione con lo scandaloso «processo 7 aprile». Ma, allo stesso tempo, ha cercato di dare una risposta culturale, e politica, al radicale cambio d’epoca prodotto dal neoliberalismo.
Quello di Roberto Nigro è un libro agile, pubblicato in francese e tedesco, che ricostruisce la genesi di quegli «anni di inverno». Nel carcere, nell’esilio francese e mentre tornava in libertà Negri ha operato un’importante svolta teorica nel suo pensiero, integrando l’originale operaismo con una prospettiva filosofica di tipo ontologico e storico.
NIGRO OGGI INSEGNA filosofia all’università di Luneburg in Germania. Con Negri ha intrattenuto un lungo rapporto di amicizia e di studio. La sua internità all’opera, e al dialogo costante con quest’ultimo, gli ha permesso di individuare il senso e i limiti che un simile cambiamento ha comportato per l’originale marxismo negriano. Sebbene sia stata frequentata da diversi marxisti di grande statura (Lukacs, Ernst Bloch, per esempio), e traduca una tensione costitutiva del marxismo tra la dialettica delle forze produttive e la storicità dei modi di produzione, l’ontologia pone problemi impegnativi.
L’essere, l’oggetto aporetico di questa «scienza», è eterno. La lotta di classe matura invece nella storia e si gioca nei rapporti di forza. Dove si trova il nesso tra l’eternità della «potenza» di un «soggetto costituente», basato sul «lavoro vivo» e il fatto che tale potenza spesso, come oggi, non sembra produrre lotte rivoluzionarie?
La risposta di Negri a questo apparente dualismo è stata ingegnosa. Il suo obiettivo è stabilire, per via etica e politica, la priorità di una potenzialità – quella della rivoluzione basata sulla forza lavoro, o il «lavoro vivo» di tutti noi – sul Capitale che tutto rinchiude nel suo mondo infernale.
PER FARE QUESTO Negri ha definito l’essere come produzione. La produzione è quella del capitale. Dunque nessun trascendentale «vuoto» o eterno. Tutto è storico, a cominciare dall’essere che siamo, cioè il «comune». Tale produzione è forse destinata al nulla? Rispetto a questa illusione metafisica, sulla quale è costruito il sapere occidentale, Negri (da spinozista quale era) ha ribaltato il piano: non solo nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Ciò che si trasforma può essere distrutto dal capitale. Ma non la potenza che lo alimenta. Senza quel «lavoro vivo» sfruttato e incarnato nel corpo e nelle menti di miliardi di persone, nulla accadrebbe. Tutto dipende dai rapporti politici, non da un destino dell’Essere. Questo è il senso profondo di definire l’Essere come produzione.
Negri ha realizzato un’operazione sofisticata: la sua definizione è «kairologica», non aristotelica, né parmenidea. Non parliamo di idealismo, ma di un aggiramento della tradizione filosofica alla luce di un’esigenza pratica.
Ma è proprio sulla pratica che oggi riscontriamo un’«impossibilità», osserva Roberto Nigro. Quella di organizzare la resistenza e tornare all’attacco. Una tragedia per i subalterni, un’atrocità per gli inermi. Davanti a questo abisso forse l’ontologia della rivoluzione è la sola consolazione che resta? Può anche darsi, ma non c’è da vergognarsene. L’umanesimo radicale di Negri non è autocompatimento. È invece pietas, amore e ricerca della forza.
LA SOLUZIONE ONTOLOGICA è una strategia, serve da «contrappeso alla povertà del presente». È un’ipotesi preliminare che tiene viva l’urgenza dell’organizzazione e della lotta. Non abbiamo bisogno né di paura, né di speranza. Abbiamo bisogno di sicurezza nella capacità di pensare e di agire. Se ce la può dare anche l’ontologia, ben venga. Non bisogna darla vinta a chi si sente il vincitore della storia.
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