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Seducente e barocca la Poppea di Wilson alla Scala

Seducente e barocca la Poppea di Wilson alla Scala«Poppea» – foto di Andrea Messana – Opéra de Paris

Musica Allestimento nel segno del contrasto, voci sfogate e stile statuario per l'opera di Monteverdi con la quale il regista texano ha completato la trilogia dedicata al grande compositore. Repliche alla Scala fino al 27 febbraio

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 4 febbraio 2015

Reduce dal successo dello spettacolo newyorkese di lancio dell’album di Lady Gaga e Tony Bennett Cheek to Cheek, per cui ha disegnato scene e luci, e prima ancora da quello delle due installazioni video parigine in cui ha trasformato la cantante pop in Marat esangue nella vasca e nella Mademoiselle Caroline Rivière di Ingres, il multiforme texano Bob Wilson lo scorso giugno ha finalmente portato a compimento la sua trilogia monteverdiana: dopo L’Orfeo e Il ritorno d’Ulisse in patria, ha curato regia, scene e luci de L’incoronazione di Poppea, andata in scena all’Opéra di Parigi e ora in cartellone al Teatro alla Scala di Milano, che l’ha coprodotta, fino al 27 febbraio, per un totale di otto recite.

L’opera è stata composta nel 1643, a poco più di quarant’anni dalla nascita del nuovo genere teatrale del «recitar cantando», dal geniale librettista Gian Francesco Busenello, che vi intreccia senza censura alcuna vicende turpi di sesso e potere sullo sfondo della Roma imperiale, e dal compositore Claudio Monteverdi, vero iniziatore con L’Orfeo (1607) di quel nuovo genere, che l’ha lasciata manoscritta in due partiture senza nome, con le linee di canto in larga parte sprovviste di armonie e strumentazione, tanto da far dubitare della sua complessiva paternità (sono presenti certamente interpolazioni di musiche di Benedetto Ferrari, Filiberto Laurenzi e Francesco Cavalli). La vicenda di Poppea, che fa invaghire Nerone inducendolo a condannare il filosofo Seneca al suicidio e a ripudiare la moglie Ottavia, trasposta dai teatrini seicenteschi ai palcoscenici dell’Opéra e della Scala, va riproporzionata, sia quanto alle prospettive, sia quanto alla prossemica degli affetti.

Servendosi di pochi elementi ricorrenti (colonnati, alberi, pareti con porte, rovine), Wilson allarga e riduce continuamente gli spazi, creando via via atrii, la casa di Poppea, la Domus aurea, un giardino, in cui fa muovere gli interpreti, rigorosamente imbellettati di bianco e fasciati dai voluminosi costumi neobarocchi di Jacques Reynaud, entro coreografie prossime alla pantomima e allo spettacolo di marionette.

Lo schema interpretativo è già noto da spettacoli precedenti e riconducibile a un aneddoto che Wilson ama raccontare: a 27 anni ha invitato a cena Marlene Dietrich, lei accettò; durante la cena, a un uomo che le chiese perché fosse così fredda quando recitava, lei rispose: «Ma lei ha mai sentito la mia voce?». «In effetti aveva una voce calda, profonda e sexy. Lei stessa spiegò che il segreto stava nel combinare un volto gelido con una voce suadente». Ecco l’assioma che regola i teoremi di Wilson: movimenti raffreddati vs impeto nella voce, stile statuario ed eleganza euclidea vs storie di passioni e voci sfogate. Questo spiega perché Nerone e Poppea, che tanto si desiderano, non si tocchino mai, persino nel celeberrimo e spurio duetto finale, «Pur ti miro», in cui le loro mani tese e gesticolanti sono separate da un vuoto incolmabile: «I cantanti mi hanno chiesto perché sono sempre così distanti. Il principio è come quello di un elastico, più le estremità si allontanano e più cresce la tensione».

Sul podio uno specialista della musica antica come Rinaldo Alessandrini, che lavora in tandem con l’idea di Wilson, assecondando il suo amor vacui e colmandolo quando serve dell’energia musicale che può essere spremuta da un organico seicentesco, assai più sparuto e flebile di quello a cui ci ha abituato il teatro romantico.

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