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Sebastian Conrad, la metamorfosi dell’ordine temporale

Sebastian Conrad, la metamorfosi dell’ordine temporaleKlaus Rinke, «Zeitfeld», 2019

Anatomia del moderno Un saggio dello storico tedesco Sebastian Conrad sull’intreccio, a partire dal XVIII secolo, di rivoluzione tecnologica e mutamenti sociali: «Verso il mondo moderno», da Einaudi

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 31 luglio 2022

Nel museo degli orologi di Ginevra, nascosti tra decine di teche contenenti sofisticati esemplari degli ultimi 500 anni, si possono scovare rarissimi segnatempo risalenti alla Rivoluzione francese. I rivoluzionari (e i loro artigiani), con passione rigeneratrice, ebbero l’ambizione di cambiare non solo il corso del tempo, ma la sua stessa misura. Progetto fallimentare, che si affiancava alla sostituzione del calendario gregoriano con quello rivoluzionario panteisticamente legato alle stagioni e non a un ordine cosmologico cristiano, la decimalizzazione della misura del tempo indica non solo la prometeica volontà dei giacobini di mutare radicalmente la società ma l’approdo di un percorso che dall’Illuminismo aveva contestato le tradizionali rappresentazioni della realtà.

Da questo presupposto – l’intrecciarsi, a partire dal Settecento, di rivoluzione tecnologica e mutamenti sociali – muove l’ultimo libro di Sebastian Conrad, Verso il mondo moderno Una storia culturale (traduzione di Alvise La Rocca, Einaudi, pp. 321, € 24,00). Già noto al lettore italiano per i suoi studi sulla storia globale, lo storico tedesco parte da tre nuclei tematici – l’Illuminismo inteso come fenomeno collettivo non solo europeo, la metamorfosi dell’ordine temporale e il mutamento delle mentalità – per affrontare la nascita del mondo moderno attraverso quell’interdipendenza dei fenomeni sociali che possiamo chiamare World History.

Sebbene la maggioranza delle popolazioni del pianeta non fosse mai salita su un piroscafo d’alto mare, non avesse mai spedito telegrammi e continuasse a vivere secondo lingue, sistemi giuridici e gerarchie di valori diversi, dal 1750 al 1900 – date di inizio e di arrivo della ricostruzione di Conrad – si affermò progressivamente una coscienza globale legata alla circolazione di uomini, prodotti, idee (soprattutto attraverso le traduzioni), credenze e rappresentazioni, che accorciò le distanze tra società molto lontane, arrivando a lambire le pieghe della vita quotidiana nei luoghi più reconditi della terra.

Nel XVIII secolo non esistevano quasi più aree nel mondo completamente isolate. Certo, un lavoratore di una piantagione centro-americana percepiva i processi di trasformazione in corso in maniera del tutto diversa da un membro dell’élite urbana. Ma nel percorso seguito da Conrad l’Europa appare, per lo meno fino alla metà del XIX secolo, un’entità poco conosciuta e pressoché irrilevante agli occhi delle potenze asiatiche, africane e mediorientali. In questa prospettiva l’Illuminismo – così come i concetti di modernità e di progresso – non viene più interpretato come fenomeno esclusivamente europeo e sfugge a una definizione unitaria. I suoi luoghi di elezione, lungi dal ridursi a Parigi, Halle, Napoli, Helsinki o Utrecht, sono rintracciabili nelle Filippine, in Colombia, India, Cina e Giappone, e naturalmente nel mondo arabo.

Una espressione del progresso tecnologico dell’Europa moderna furono proprio i primi orologi meccanici, trasportati in Giappone nel XVII secolo dalla Compagnia olandese delle indie orientali, che incontrarono un grande successo tra le élite nipponiche; ma la pratica culturale connessa alla temporalità, ci spiega Conrad, era assai diversa dalla concezione europea. Il calcolo del tempo in Giappone continuò a dipendere infatti dai cicli naturali per almeno due secoli, quando con la restaurazione Meiji la situazione cambiò radicalmente e gli orologi, divenuti uno status symbol della modernità, furono utilizzati su larga scala, con l’abbandono nel 1873 del computo lunisolare e la diffusione del calendario gregoriano. Infine fu introdotta la settimana di sette giorni, diversa dalla precedente suddivisione in dieci e il sistema in armonia con le stagioni, il clima e le maree fu sostituito da un modello teoricamente più razionale.

Per il diritto internazionale europeo, fortemente imbricato con quello coloniale, terra sine tempore significava terra nullius: l’assenza di una concezione del tempo lineare presso le comunità indigene era vista come una conferma della loro arretratezza e rappresentava un invito alla colonizzazione. Ma la «neutralizzazione del tempo», con l’eliminazione delle date fauste e infauste, non fu una semplice accettazione del modello coloniale europeo, bensì la risposta alle nuove esigenze politico-economiche locali: una logica della diversità nella scansione delle ore legata non più alle forze cosmiche ma ai ritmi delle fabbriche. L’impulso più grande alla standardizzazione del tempo non fu dato da scelte politiche bensì da esigenze commerciali: la ferrovia, metafora di modernità e progresso da Karl Marx a Walter Benjamin, segnò l’impulso più forte all’accelerazione storica.

Il «meridiano zero» della storia va inserito in un sovvertimento della temporalità che contraddistinse quella che Reinhart Koselleck ha definito «soglia epocale» (Sattelzeit), caratterizzata, a partire dalla metà del XVIII secolo, da una progressiva denaturalizzazione dell’esperienza temporale. Da quel momento il tempo, omogeneo e progressivo, venne concepito come una freccia che procedeva irreversibilmente verso il futuro.

Negli interstizi tra il tempo premoderno, locale e concreto, e quello «nuovo», frenetico e senza confini, si intravede plasticamente l’anatomia del moderno. Sebbene il tempo fosse già uno strumento di dominio nelle società precoloniali, il regime imposto dall’organizzazione capitalistica del lavoro di fabbrica, plasmato su quello delle piantagioni, ne comportò una nuova disciplina totalizzante al punto da rendere l’uomo, secondo le parole di Marx, una sua incarnazione.

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