Sebald, intenti e poetica
Al di là dei singoli episodi, il susseguirsi dei saggi raccolti nel volume Tessiture di sogno (a cura di Sven Meyer, resa in modo magnifico, come già nelle altre opere, da Ada Vigliani, Adelphi «Biblioteca», pp. 243, € 19,00) permette di ripercorrere la genesi dell’arte letteraria di W. G. Sebald, la progressiva emancipazione dalle convenzioni della scrittura accademica e l’approdo a quella prosa che si dispiega in forme compiute negli ultimi scritti qui raccolti, il cui ductus non appare radicalmente diverso da quello delle opere maggiori.
Sebbene la ricchezza e la varietà della raccolta lasci, a un primo sguardo, disorientati, non è difficile riconoscere fin dall’inizio la voce dello scrittore tedesco. Nel testo che apre la raccolta, quando il viandante che indugia nelle strade di Ajaccio sente d’improvviso il bisogno di entrare in un museo e qui, accanto a opere di Botticelli o di Tiziano, si sofferma davanti a un dipinto – il «più bello di tutti» – dell’artista lucchese Pietro Paolini, si ha un mirabile esempio dell’abilità di Sebald nell’intrecciare dettagli visivi e vertiginose considerazioni sulla natura umana: l’ecfrasi del quadro, che ritrae una donna dai «grandi occhi melanconici» e una bambina sul cui viso serio «sembrano essersi appena asciugate le lacrime» culmina nella percezione della «intera e insondabile sventura della vita».
Galleria di predecessori
A questo primo frammento e agli altri tre splendidi brani che sarebbero dovuti confluire in un libro sulla Corsica, progettato da Sebald tra il 1995 e il 1996 e poi abbandonato in favore di Austerlitz, fanno seguito testi di altro genere: alcuni articoli accademici pubblicati dall’autore negli anni Settanta e Ottanta su autori di lingua tedesca, alcuni saggi di critica letteraria, più agili e brevi, e infine un paio di memorie e discorsi di carattere autobiografico e poetologico.
Il libro, uscito in originale nel 2003, due anni dopo la morte dell’autore, presenta materiali disparati, e per molti versi appare comprensibile la scelta compiuta dall’editore italiano di pubblicare separatamente, negli anni passati, le «schegge di prosa» sulla Corsica (con il titolo Le Alpi nel mare) e alcuni degli ultimi testi di questa eterogenea raccolta (Moments musicaux). Pure, la raccolta nel suo insieme si rivela preziosa per diversi motivi. Anzitutto per l’interesse che ha ciascuno dei testi, a cominciare dalle più remote indagini accademiche.
Nel saggio dedicato a Peter Handke, per esempio, la riflessione sulla pièce Kaspar si sviluppa all’interno di una critica del linguaggio memore di Nietzsche, Hofmannsthal e Kafka; e nel corposo saggio in cui Sebald già nel 1982 indagava i motivi del silenzio che gli autori nella Germania del dopoguerra riservarono alla distruzione delle proprie città, viene anticipato il tema che avrebbe poi trovato sviluppo a distanza di anni nella sua Storia naturale della distruzione, mostrando come quella singolare reticenza fosse complementare alla rimozione delle atrocità perpetrate dalla Germania nazista.
In questi e negli altri scritti sulla letteratura tedesca del secondo Novecento, Sebald sembra isolare una personale galleria di predecessori (Peter Weiss, Alexander Kluge, Wolfgang Hildesheimer o Jean Améry), che vengono posti in contrasto con alcune figure dominanti nel canone postbellico, come Günter Grass. Ancora maggiori sono i motivi d’interesse negli scritti più recenti di questa raccolta, apparsi per la maggior parte in giornali e riviste rivolti a un più ampio pubblico, e dunque negli scritti dedicati a Kafka, Nabokov, Chatwin o a figure minori come il poeta Ernst Herbeck e il pittore Jan Peter Tripp, in cui l’attenzione ai dettagli dei singoli testi è spesso punto di partenza per digressioni tanto sorprendenti quanto illuminanti.
Quel che potrebbe apparire come un pot-pourri composto all’indomani della morte di Sebald si rivela essere, dunque, la progressiva elaborazione di una sua personale poetica.
Gli accenti polemici contro certi studiosi «le cui caparbie ricerche si rovesciano regolarmente in una caricatura della scienza» andranno allora lette anche come un’autocritica, un tentativo di liberarsi in primo luogo da alcune consuetudini di scrittura che riguardavano lo stesso Sebald, pronto qui a riconoscere le proprie «colpe» riguardo a una «sciagurata tendenza all’interpretazione speculativa». Allo stesso modo, la ricostruzione del processo compositivo della prosa di Nabokov, per cui è necessario «lavorare per ore e ore a una breve sequenza di parole finché il ritmo, inclusa l’ultima cadenza, non fosse quello giusto, finché la forza di gravità non venisse sconfitta», non potrà non essere letta come una dichiarazione d’intenti da parte dell’autore stesso. Diviene allora naturale che la raccolta si concluda con quei testi in cui Sebald si è concesso una riflessione sulla propria esperienza e una esplicita dichiarazione di poetica, come avviene nel discorso tenuto, poche settimane prima dell’incidente automobilistico che gli sarebbe costato la vita, per l’inaugurazione del Literaturhaus di Stoccarda.
Qui Sebald si pone la domanda che grava su ogni moderna scrittura poetica – «à quoi bon la littérature?» – e prova a rispondere affermando che soltanto la scrittura «può procedere, al di là della registrazione dei fatti e al di là della scienza, a un tentativo di restituzione» verso «coloro cui toccò l’ingiustizia più grande».
Ritardare la dissoluzione
La speranza di ricordare quelli che «senza canto e lamento» sono trascinati nel regno della morte, va tuttavia facendosi sempre più incerta, e sempre più vicina appare la resa del malinconico al procedere cieco della storia. In uno dei frammenti dedicati qualche anno prima alla Corsica, riflettendo sulle tradizionali usanze funebri dell’isola, il viandante individua nel singolare connubio di disperazione e artificio espressivo un tratto distintivo della nostra specie davanti al lutto; ma è al contempo consapevole di come i morti siano destinati a scomparire sempre più in fretta, di come ciascuno di noi appaia fin dalla nascita superfluo e «rimpiazzabile».
Il trauma che provò Heinrich von Kleist visitando a Parigi a inizio Ottocento, quando constatò come le vite umane sembrassero perdere di valore in un luogo dove «erano presenti in 800.000 esemplari», trova una eco in Sebald davanti alle metropoli «sospinte in modo inarrestabile verso i trenta milioni di abitanti». La scrittura letteraria può allora forse solo provare a ritardare il momento in cui «il passato si dissolverà in una massa uniforme, irriconoscibile e muta», e si arriverà da un presente immemore a «un futuro che l’intelligenza di nessun individuo riuscirà più a comprendere».
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