Visioni

«Se una storia non è ben raccontata, non può funzionare»

«Se una storia non è ben raccontata, non può funzionare»Jonathan Demme

Festival del Cinema Incontro con Jonathan Demme in una masterclass con il pubblico

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 12 novembre 2013

«Al cinema se non sai raccontare sono guai!» esordisce Jonathan Demme, protagonista della masterclass, che ieri sera ha presentato in anteprima al festival di Roma il suo nuovo film, Fear of Falling, una rilettura eccentrica del dramma ibseniano Il costruttore Solness. «Lo spettacolo mi ha emozionato e ho voluto portarlo sullo schermo. Ora vediamo la reazione del pubblico». La sala Sinopoli dell’Auditorium è strapiena, in fila hanno iniziato a mettersi più di un’ora prima, quasi tutti giovanissimi, eppure è domenica, è il primo giorno d’autunno e gioca pure la Roma.

La Festa ha dunque vinto la sua scommessa al primo fine settimana, facendo dell’Auditorium una calamita metropolitana tra doc, sperimentali, e attese di star, prima tra tutte la sorridente Scarlett Johansson, protagonista dell’applauditissimo Her. Eccoci a ascoltare il regista di Qualcosa di travolgente e del Silenzio degli innocenti. In platea c’è anche Enzo Avitabile, a cui Demme ha dedicato il suo Music Life – che sarà proiettato il 15 a Lampedusa, con una perfomance dello stesso Avitabile, per i migranti.

«Ho pensato a lungo alla dimensione narrativa del cinema e non credo che si possa sfuggire a questo aspetto: se una storia non è forte e ben raccontata il film non può funzionare. Tutti quelli che partecipano alla creazione di un film sono narratori, fanno tutti parte della storia. Gli attori hanno una grande responsabilità, ma anche un operatore racconta una storia, e se si toglie il sonoro, l’inquadratura e la luce devono raccontare la loro storia» ha detto ancora Demme nella lunga e bella chacchierata.

Nel corso della quale ha anche raccontato il suo prossimo progetto, che si intitola Zeitoun, ed è ispirato al siriano-.americano che durante l’uragano Katrina ha salvato molte vite, ma poi è stato arrestato con l’accusa di terrorismo. «Non è facile trovare i finanziamenti per un film che ha come protagonista un musulmano buono. Ma il mio maestro è stato Roger Corman,un incontro che mi ha segnato per la vita. Da lui ho imparato che si può trovare una soluzione a tutto».

Cosa sarà della Festa/Festival nel prossimo futuro è da scoprire. Una cosa è certa: qualcosa è cambiato dalla passata edizione, Muller sta sperimentando le possibilità del (complicato) territorio ma questo non significa, come è stato detto da qualche parte, che il festival sia privo di identità. Diciamo che la sua è un’identità espansa, in cui si cerca come vuole la dimensione metropolitana di mettere insieme molte differenze per sedurre occhi diversi. È vero i prezzi sono alti, e i tagli si vedono. Intorno all’Auditorium sono stati più che dimezzati gli spazi temporanei, le tende/sala degli sponsor non ci sono più. Si è fatta anche notare l’assenza della politica capitolina sul tappeto rosso, meno male verrebbe da dire, se in contrappasso ci fosse una presenza – da parte dell’amministrazione Marino e di quella Zingaretti – un po’ più decisa nelle scelte di politica culturale cittadine per ora assai «flou».

E questo sì che è un problema grosso anche per i destini del festival.Quanto poi all’identità, una piuttosto decisa nella scelta del concorso, è quella di puntare – anche per i film americani – al cinema indipendente, che non è solo una questione di budget ma di stile, ricerca narrativa, progetto. Tra questi, il film portoghese A vida invisivel di Vitor Gonçalves, molto atteso dalla cinefilia internazionale di tendenza. Gonçalves infatti è un regista che fa pochissimi film, eppure il suo è un nome di riferimento per il cinema portoghese d’autore. Dall’esordio, nell’86, col magnifico Uma rapariga no Verao, Una ragazza in primavera, rivelato alla Mostra di Venezia, questo allievo oggi sessantenne di Antonio Reis, uno dei maestri del cinema lusitano, produrrà il primo film di Pedro Costa, O sangue, che sarà anche l’inizio di una nuova generazione del cinema nel suo paese.

La vita invisibile è quella di Hugo,quarantenne bello e solitario, impiegato al ministero, che all’improvviso viene coinvolto nella vita dell’anziano collega che una malattia porta alla repentina morte. Intorno a Hugo c’è una Lisbona più vicina a Kafka che a Pessoa, sconquassata dai perenni lavori in corso come lo stato d’animo del protagonista. L’impressione è quella di un Fight Club di fantasmi del maschile in crisi: da una parte l’anziano, dall’altra il collega coetaneo che lo schernisce sono tutte proiezioni del nostro protagonista, così come la figura del perduto amore, una hostess che ha preferito alle sue ansie (e come darle torto) la leggerezza delle nubi. Ma il sentimento dell’al di qua del maschio è scivoloso, e anche il cinema può perdersi nel suo egotismo.

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