Se tornano in Grecia i marmi del Partenone
YANNIS HAMILAKIS Intervista con l’archeologo e docente alla Brown University di Providence. Conservati dal 1816 al British Museum, il loro rientro è considerato una «questione nazionale». «Se dovessero essere restituiti al Museo dell’Acropoli di Atene e venerati come icone sacre, sarebbero imprigionati nella trappola colonialista»
YANNIS HAMILAKIS Intervista con l’archeologo e docente alla Brown University di Providence. Conservati dal 1816 al British Museum, il loro rientro è considerato una «questione nazionale». «Se dovessero essere restituiti al Museo dell’Acropoli di Atene e venerati come icone sacre, sarebbero imprigionati nella trappola colonialista»
Di recente la stampa internazionale si è espressa con toni ottimistici riguardo al ritorno dei Marmi del Partenone (conservati dal 1816 al British Museum) in Grecia. Ma davvero la svolta che metterebbe fine a una lunga e infervorata contesa è vicina? A questo proposito abbiamo dialogato con Yannis Hamilakis, docente di Archeologia e di Storia della Grecia moderna presso la Brown University di Providence (Stati Uniti).
«Il clamore suscitato dalle “nuove trattative” si spiega con due fatti – dice lo studioso –. Il primo è che la Grecia è entrata in una fase pre-elettorale. La posta in gioco è alta perché, come sappiamo, i Marmi del Partenone hanno un profondo significato simbolico per il Paese; la campagna per il loro ritorno è considerata una questione nazionale e una presunta vittoria in tale ambito gioverebbe al partito che attualmente governa. In secondo luogo – continua Hamilakis –, va osservato che il governo sembra aver abbandonato le precedenti politiche sul rimpatrio delle antichità in generale e in relazione ai Marmi del Partenone in particolare. La Grecia, infatti, ha sempre affermato di essere la legittima proprietaria delle sculture che furono violentemente rimosse da Elgin agli inizi del XIX secolo, quando questi era l’ambasciatore britannico a Costantinopoli. Eppure, gli odierni negoziati che coinvolgono, nel segreto, persino il Primo Ministro greco insieme a gruppi di pressione creati da oligarchi greci con sede a Londra, mirano a un accordo di compromesso, a una sorta di scambio reciprocamente vantaggioso».
Quali sono esattamente i termini di queste negoziazioni?
L’accordo potrebbe concernere lo scambio di alcuni marmi del Partenone con altre importanti antichità dai musei greci, se non addirittura l’istituzione di una filiale del British Museum ad Atene. Intesa, quest’ultima, che aggirerebbe presumibilmente la spinosa diatriba sulla proprietà dei fregi. A tali condizioni non si può parlare di rimpatrio ma piuttosto di commercio, per giunta tramato nell’ombra. Ciò non è infatti conforme ai principi sostenuti dal movimento globale per le restituzioni e la decolonizzazione del patrimonio, una battaglia che ha costretto i musei a ripensare il loro ruolo e la loro missione. D’altronde, il governo greco si è affrettato ad approvare una legge che consente di prestare a lungo termine (fino a cinquant’anni) reperti archeologici ai musei esteri. Inoltre, la conversione dei maggiori musei pubblici della Grecia in enti gestiti da consigli di amministrazione nominati dallo stesso governo, li rende vulnerabili alle pressioni di quest’ultimo e al potere di ricchi finanziatori. Tuttavia, mentre il governo greco ha fatto credere alla stampa di essere molto vicino alla firma di un accordo, sia il British Museum che il governo britannico hanno chiuso la porta dichiarando pubblicamente di non essere disposti a smantellare le collezioni né a cambiare le leggi.
Nel frattempo, l’Acropoli di Atene è stata devastata da passerelle in cemento, un intervento che nel suo ultimo libro («Archaeology, Nation, and Race. Confronting the Past, Decolonizing the Future in Israel and Greece», Cambridge University Press 2022), scritto con Raphael Greenberg, non esita a definire «purificatore».
L’episodio che cita è solo l’ultimo nella lunga storia di trasformazioni di un sito ricco e multiculturale – qual è l’Acropoli – in un monumento «sanificato e sterile», incentrato su un unico periodo. Un processo di purificazione, appunto, comune ad altri aspetti della narrativa nazionale ellenica, come ad esempio la lingua. Secondo la giustificazione degli architetti che hanno realizzato il progetto, la cementificazione di gran parte dell’Acropoli corrisponde al tentativo di ripristinare la «corretta» percezione visiva del sito nel periodo classico. Come se noi abitassimo i corpi viventi nel V secolo a.C.!
Oltre che a una metamorfosi, non ci troviamo forse difronte a una ricostruzione perlopiù arbitraria di un paesaggio antico?
È così. Ciò che noi ammiriamo oggi, infatti, non è uno spaccato dell’Atene del V secolo a.C. ma una visione di essa ideata, tra la fine del Settecento e l’Ottocento, da antiquari, filologi e archeologi. La campagna di purificazione iniziò al principio dell’Ottocento, nel momento in cui l’Acropoli divenne un sito archeologico organizzato e il simbolo per antonomasia dell’immaginario nazionale ellenico ma anche di quello occidentale e coloniale. Tale processo venne condotto con zelo prima dagli architetti e dagli archeologi bavaresi arrivati nel 1830 con il primo re di Grecia, Ottone, e poi dagli studiosi dello Stato greco fino ai giorni nostri. Oggi i dibattiti globali e nazionali sul ruolo dei monumenti e sul restauro si sono evoluti ma la mentalità purificatrice è ancora viva tra i responsabili dell’Acropoli. Le conseguenze sono molteplici: la distruzione del palinsesto che era la Rocca, con la cancellazione quasi totale delle tracce materiali dei differenti periodi ad accezione di quelle di epoca classica; la proiezione di una storia materiale distorta e altamente problematica del sito; infine, l’attribuzione a quest’ultimo di una funzione ideologica che soddisfi il desiderio di glorificare «materialmente» una storia di supremazia occidentale, bianca, eurocentrica.
Ad esempio, i milioni di visitatori che ogni anno salgono sull’Acropoli sanno che stanno calpestando delle sepolture appartenenti a un vasto e importante cimitero musulmano esistente quando Atene era una città ottomana?
Fin da metà Ottocento, in Grecia, si sono installate missioni archeologiche straniere, le quali hanno effettuato scavi e scoperte memorabili nei siti più rilevanti del continente e delle isole, da Delfi a Olimpia, da Delo a Rodi. Quanto pesa, ancora oggi, questa «occupazione»?
L’archeologia è sempre stata un’impresa transnazionale, che prevede la collaborazione di molti specialisti, qualunque sia la loro origine. Tuttavia, la presenza delle scuole straniere è una costante in molti paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, precedentemente soggetti a colonizzazione. Nel libro Archaeology, Nation, and Race, io e Greenberg dimostriamo che la Grecia ha subito una cripto-colonizzazione. Essa ha infatti rappresentato uno Stato cuscinetto tra il cuore dell’Occidente e il resto del mondo, specialmente gli «altri Orienti». Questo è accaduto soprattutto in virtù dell’adozione dell’eredità classica come origine ancestrale e mitica della «civiltà» occidentale. In principio, dunque, si è trattato di una colonizzazione degli ideali, poi divenuta una cripto-colonizzazione materiale, espressa in diversi modi.
Non si può negare che si sia verificata allo stesso tempo un’auto-colonizzazione, in quanto coloro che hanno abbracciato la causa nazionale ellenica hanno accettato le storie sulle origini mitiche come proprio mito fondatore. Per tornare alla questione dei marmi del Partenone, solo una élite governativa cripto-colonizzata discuterebbe accordi come quelli a cui ho accennato sopra.
In definitiva, ritiene che i Marmi del Partenone debbano tornare ad Atene?
Sì, dovrebbero tornare. Ma questo non basta. L’archeologia greca – che include quanti operano in Grecia in tale ambito a prescindere dalla nazionalità – dovrebbe fare i conti con la colonizzazione del patrimonio, che è stata centrale anche per la cripto-colonizzazione del Paese nel suo complesso. Il Partenone non può e non deve continuare a essere considerato come parte di una narrazione nazionalistica del passato e del presente. Se dovessero essere restituiti al Museo dell’Acropoli di Atene e venerati come icone sacre del racconto nazionale, allora i marmi resterebbero imprigionati nella trappola colonialista. Lo stesso museo dell’Acropoli dovrebbe essere completamente rinnovato e riorganizzato per esporre l’intera storia del sito attraverso ogni momento della sua ricca e affascinante biografia, con tutte le tracce materiali ancora superstiti, dalla preistoria all’epoca moderna. Ciò non diminuirà affatto il valore del Partenone. Al contrario lo accrescerà, mostrando l’influenza che ha esercitato su popoli, culture e fedi diversi nel corso dei millenni. In tal modo, l’Acropoli – un sito unico al mondo – potrà parlare a tutte le componenti di un Paese che cambia velocemente nonché cessare di essere un monumento alla bianchezza e all’eurocentrismo, diventando invece un punto di riferimento sia per i nativi che per i migranti, di qualunque religione ed etnia essi siano.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento