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Se Topolino si mangia Hollywood

Se Topolino si mangia Hollywood – foto Reuters

Media La possibile vendita della 20th Century Fox alla Disney è un’ipotesi chiacchieratissima. Interpretato come mossa anti Netflix, in pochi si sono interrogati su cosa questo significhi per il cinema

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 14 novembre 2017

Apparsa, insieme a un’improvvisa impennata delle azioni della Disney, e subito dopo messa a tacere dal silenzio stampa di entrambe le parti, la possibile vendita della Twentieth Century Fox alla casa di Topolino continua a essere un’ipotesi chiacchieratissima e altrettanto temuta da molti. Sulle pagine finanziarie, l’affare, visto di buon occhio – pare- da Rupert Murdoch insieme ai figli/eredi Laclan e James, alle prese con il posizionamento verso il futuro del business di famiglia- è interpretato come una mossa della Disney per fronteggiare la rivoluzione dello streaming globale, incarnata dal più gettonato «cattivo» del momento, Netflix, seguito a breve distanza da Amazon, Google e Youtube – che ha da poco iniziato a produrre. Acquistando una grossa fetta della Fox, che include i leggendari studi di produzione di Century City, l’archivio, canali televisivi e via cavo come FX e National Geographic – ma non Fox News e Fox Sport, che rimarrebbero ai Murdoch – Disney estenderebbe in modo esponenziale la sua sfera di contenuti.

Noto per una vocazione alla voracità scoperta nel terzo millennio – basta pensare agli acquisti ad altro profilo di Pixar, Marvel e Lucasfilm – lo studio che fu di Walt (e che nel 2016 ha fatturato 2.5 miliardi di dollari, uno in più del suo immediato concorrente) diventerebbe la Major più grossa e potente di Hollywood. Di fronte alla prospettiva di un merger (fusione) tra il primo e terzo studio Usa, che unirebbe sotto lo stesso tetto gli X-Men e gli Avengers, pochi si sono interrogati su cosa tutto questo significhi per il cinema. A partire dall’impatto sulla produzione di una stupefacente concentrazione di potere (nel 2016, le vendite in biglietti di film Fox più Disney hanno corrisposto al 40% del mercato Usa), e del fatto che un merger equivarrebbe alla virtuale scomparsa di una delle «big six» , le sei grandi compagnie intorno a cui si è costruita la storia di Hollywood. Passando sotto il controllo dell’ex concorrente, la Fox, nata Twentieth Century Pictures nel 1910 e unitasi nel ’35 con Fox Film, diventerebbe essenzialmente «un marchio», da annettere al medagliere di Bob Iger, CEO della Disney e un businessman così universalmente stimato, che c’è chi si aspetta e auspica che un giorno decida di candidarsi per la Casa bianca. Da anni ormai, la Disney è uno studio di marchi – il loro listino, e i loro sforzi di marketing, tutti concentrati sugli incassi stratosferici che accompagnano regolarmente le uscite del nuovo cartoon Pixar o Disney, di un nuovo film Marvel o del prossimo Star Wars. Lo sforzo finanziario e di lavoro investito in lanci di quel calibro toglie aria e spazio al resto della produzione cinematografica. Ironicamente, la compagnia che, negli anni novanta, aveva trovato uno sbocco oltre l’animazione con film per famiglie di taglia piccolo/media che avevano molto successo, oggi è il simbolo del tent pole film. Pochi ma molto grossi. Anche la Fox a blockbuster non scherza – solo recentemente: Avatar, Titanic, gli X-Men e Il pianeta delle scimmie.

Ma lo studio di Zanuck, che fu sinonimo di John Ford, Frank Borzage, Betty Grable, Gene Tirney, Henry Fonda e Marylin Monroe; di musical come Il re ed io e Tutti insieme appassionatamente e di disastri come Cleopatra; che realizzò il primo film in Cinemascope (La tunica) e nell’era pre-Disney, fu il distributore di Star Wars; ha coltivato, negli anni, una sua politica degli autori che, ancora fino ad oggi, poteva unire sotto lo stesso tetto James Cameron, Mel Gibson, Wes Anderson e Alexander Payne. Registi da blockbuster e di qualità più indie. Questa flessibilità insolita per una Major è stata data dalla presenza stabile e duratura, sotto l’ombrello Fox, di un’etichetta director friendly come la Searchlight, che quest’anno ha prodotto Martin McDonagh e Guillermo del Toro e che in passato è stata «casa» per Payne, e Darren Aronofsky.

Che fine farebbero questi film più «piccoli», più tradizionalmente «d’autore», nell’incontro tra Titani immaginato dai Murdoch e da Iger non si può dire. Ma non c’è da star tranquilli. Certo, con Amazon e Netflix che offrono a registi di nome più libertà e più soldi, c’e il rischio che presto il cliché delle Major che esistono solo per riciclare prodotti di franchise si avveri. Il che sarebbe molto triste. Come d’altra parte è molto triste la valutazione che si cela dietro all’ipotetica mossa dei Murdoch, che già un paio di anni fa avevano fatto circolare nello studio una lettera che offriva agevolazioni finanziarie a tutti impiegati di carriera che sceglievano di dimettersi: non solo il cinema non è un profitto su cui investire per il futuro, è così irrilevante che un impero mediatico può scegliere di sbarazzarsene.

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