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Se sei indignato clicca quiSostenitori di Donald Trump a un comizio per la campagna delle presidenziali nel 2016 – LaPresse

Hacker’s dictionary La rubrica settimanale a cura di Arturo Di Corinto

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 29 marzo 2018

C come clicktivism, l’attivismo del click.

Adesso che con Cambridge Analytica abbiamo scoperto che i nostri click su Facebook possono essere usati per manipolare le tendenze di voto è ora di capire che è anche colpa nostra.

Il clicktivism è la versione social dell’attivismo da tastiera, quell’attitudine che ci aveva fatti sentire partecipi e sostenitori delle Primavere arabe e che ancora oggi ci aiutano a metterci in pace con le ingiustizie del mondo.

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È un termine dispregiativo perché indica un tipo di attivismo facile, poco impegnativo che spesso si risolve nella sua forma peggiore, lo slacktivism, l’attivismo inconcludente e fannullone di cui parla anche Eugeny Morozov.

E tuttavia dice molto di quali sono le nostre preferenze culturali e politiche, proprio quelle che sono collezionate nei giganteschi database che i padroni dei dati come Google, Amazon e Facebook usano per definire i nostri profili sociali, economici, ed elettorali.

Il clicktivism è basato sulla persuasione.

Alla base di ogni forma di comunicazione, quella politica e quella pubblicitaria, la persuasione cerca di farci fare quello che non faremmo di nostra spontanea iniziativa, scatenando risposte pre-programmate dalla cultura e dall’educazione.

Se uno ti saluta, tu rispondi, anche se non lo conosci. In Rete rispondiamo ai segnali digitali di persone che fanno parte delle nostre cerchie sociali: se un mio amico condivide una notizia io ci piazzo un like sotto o la rimbalzo su Twitter. Magari neanche la leggo ma intanto non è faticoso e faccio contento il mio amico dichiarando la mia adesione alla sua visione del mondo.

Il secondo elemento da considerare è l’estrema personalizzazione delle forme di influenza basate sugli algoritmi.

Adesso siamo tutti concentrati su Facebook, ma ci sono piattaforme più persuasive. Basta cliccare su un certo video e Youtube ci proporrà argomenti simili e sempre più coerenti. Hai guardato il video di un comizio di Salvini? Appena ti connetti a Youtube ti vengono suggeriti i video degli altri suoi comizi. Viceversa, se guardi un paio di comizi a Cinquestelle, la piattaforma ti proporrà i video dei Cinquestelle.

Come dice Michele Mezza nel suo ultimo libro, Algoritmi di libertà (Donzelli editore, 2018) le piattaforme digitali in fondo sono neutrali, cercano di proporci quello che ci piace e quello che ci piace viene dedotto dai click fatti nel passato. Ogni ricerca online ne tiene memoria, come su Google.

Queste informazioni però possono essere usate per comunicazioni mirate e geolocalizzate durante le elezioni.

È così che funzionano i dark ads di cui parla Mezza: messaggi promozionali a pagamento diretti solo a specifici indirizzi o territori.

Qui la manovra però diventa a tenaglia: prima l’esposizione alle fake news per polarizzare l’elettorato, poi il messaggio politico ritagliato ad hoc sotto forma di una comunicazione nominativa, diretta a una moltitudine di singoli elettori, ai quali viene recapitata in maniera ossessiva un’informazione specifica e coerente con il proprio profilo psicologico ed elettorale.

Si è detto che questo tipo di propaganda somiglia a quella usata da Obama: sbagliato.

Dietro alle campagne elettorali di Obama c’erano degli attivisti in carne ed ossa, quelli di Move On, che scrivevano e rispondevano alle email, organizzavano i meet up, andavano porta a porta e usavano i vecchi elenchi telefonici per chiamare al voto i singoli elettori. Non erano clicktivisti.

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