Il kitsch, quando va oltre se stesso e diventa sistema, risulta indigesto. L’Eurovision Song Contest 2023 è stato il perfetto esempio di come, a furia di inseguire l’effettaccio, si rischia di diventare la parodia di se stessi.
Quest’anno la competizione avrebbe dovuto tenersi in Ucraina, vincitrice della scorsa edizione. Trasmesso da Liverpool, terra dei Beatles, causa guerra di insopportabile devastazione, il festival ha fatto di tutto per offrici un’overdose rutilante di effetti luccicanti, assordanti, caricaturali, melensi, un po’ come in quelle feste dove bisogna a tutti i costi far vedere che ci si diverte per nascondere la verità, ovvero che non ci stiamo divertendo per nulla.
Al grido di «Uniti dalla musica», si è puntato sul troppo di tutto, troppe luci, troppo rumore, troppi effetti, troppi balletti, troppi lustrini, troppi gridolini, troppa esultanza, troppi coriandoli, troppi fuochi di artificio, troppa ricerca della stranezza a tutti i costi. Vedevi Marco Mengoni con i suoi vocalizzi e la sua canottiera di paillettes e ti sembrava di entrare in un ashram.Se vogliamo vedere in questa manifestazione canora un ritratto dell’Europa com’è adesso, abbiamo la conferma che siamo un insieme di luoghi comuni

DALLA VALCHIRIOSA prestanza di una delle presentatrici, Hannah Waddingham, che fra abiti giallo canarino, scollature lucidate e smorfie da consumata attrice si è metaforicamente mangiata le due colleghe, è stato tutto un susseguirsi di fuochi circensi (Cipro), band dai virulenti tagli di capelli (Australia), guepière tipo coniglietta (Israele), abiti fluttuanti in venti artificiali (Estonia e Armenia), penalizzanti pantaloni in luccicante vinile (Austria), un nostalgico di Boy George (Belgio), un boy scout in rosa e foruncoli (Romania), di nuovo cerchi e lame di fuoco (Moldova), artigli graffianti che emergono da sottoterra e intanto scopiazzano gli Abba (la vincente Svezia), piume di struzzo rosso fuoco (Portogallo), un urlato flamenco (Spagna), simil fuochi d’artificio (Irlanda), ballerini con maschere antigas (Serbia), per non parlare delle ambizioni heavy metal e distopiche affidate a lame, tatuaggi e pioggia di sangue (Germania) o delle vette del grottesco con le caricature di noti dittatori in mutande (Croazia).
Se vogliamo vedere in questa manifestazione canora un ritratto dell’Europa com’è adesso, abbiamo la conferma che siamo un insieme di luoghi comuni dove ogni Paese è identificato con la banalizzazione di una melodia etnica, che bisogna sgomitare e urlare per farsi notare di più, che non basta portare una canzone, ma serve sovraccaricarla fino al parossismo con scene, effetti e balletti.

E SIAMO PURE un po’ ipocriti, perché escludere gli artisti russi vuol dire mettere sullo stesso piano un popolo e l’autocrate che toglie loro le libertà, così si elimina ogni possibilità di accogliere un’eventuale dissidenza, la voce che di là potrebbe dire «Non siamo d’accordo con chi ci comanda». C’è una serie di ragioni per cui possiamo prevedere che l’Eurovision Song Contest non cambierà, perché da sempre predilige il sopra le righe, perché è l’evento musicale in diretta più seguito al mondo e si sa che cavallo vincente di solito non si cambia, perché facendo capo a Ebu, una consociata di emittenti pubbliche che comprende 56 Paesi, deve mettere d’accordo una tal quantità di esigenze che il compromesso regna sovrano, e i compromessi nello spettacolo finiscono col premiare il più vendibile anziché il più visionario.
Assodato che non sarà mai questo festival a indicare la luminosa via della canzone del futuro, spenta la tivù ci ha assalito un desiderio sovrano. Ridateci qualcuno illuminato solo da un occhio di bue, fermo in mezzo alla scena, che canti, e basta.

mariangela.mianiti@gmail.com