Se Parigi diventa baia amplissima
TEMPI PRESENTI Tra reportage e meditazione, una giornata al limite del lockdown. Desolazione e malinconia, nella città che si adatta alla chiusura delle attività e al virus che avanza. La Francia si fermerà del tutto, resteranno aperti solo alimentari e farmacie, chiude anche l’Institut. Dobbiamo raccogliere libri e carte e portare a casa tutto quello che serve
TEMPI PRESENTI Tra reportage e meditazione, una giornata al limite del lockdown. Desolazione e malinconia, nella città che si adatta alla chiusura delle attività e al virus che avanza. La Francia si fermerà del tutto, resteranno aperti solo alimentari e farmacie, chiude anche l’Institut. Dobbiamo raccogliere libri e carte e portare a casa tutto quello che serve
E dunque si è votato, nelle città francesi, alle elezioni municipali. Non si è soltanto votato. La primavera è esplosa anche qui, e tutti i magnifici parchi di Parigi erano pieni di famiglie, di innamorati e di vecchie signore a passeggio. Una domenica di marzo da cieli e voli chagalliani, con i ciliegi e i peschi che un inverno mitissimo invita a fioriture esagerate. Davvero Parigi ti può ammaliare fino al nirvana in certi pomeriggi, e non sai se è la sua luce o il vento, la verde geometria dei giardini regali, il profilo maestoso della sua superbia, i ponti che s’accendono sulla storia fluente, con la sua curva così ampia e dolce che pare un fiume di pace. Sì, era finita così la giornata. Una domenica placida e fluviale, una primavera da déjeuner sur l’herbe. Eppure dentro una stretta alla gola, il senso di un addio.
LA MATTINA DOPO – singolarmente fredda e grigia – pedalavo perplessa verso la Salpêtrière, già affollata di vittime del morbo, chiedendomi come fosse possibile che, prima ancora di qualunque annuncio ufficiale, tutti gli studi dentistici della capitale avessero cancellato gli appuntamenti e nessuno rispondesse al telefono. Avevo passato due ore a cercarne uno che volesse ricevermi, saltato l’appuntamento fissato per oggi pomeriggio, per farmi estrarre un molare dolente, purtroppo. Con il terrore che recedeva e mi induceva al sollievo per la scampata bomba di antibiotici accoppa-difese immunitarie, ma fino a quando? E con che rischi di non trovare più veramente nessuno, poi, che potesse aiutarmi? Niente da fare, tutti chiusi. Di fronte al cancello del Jardin des Plantes mi fermo per attraversare, verso il lungo Senna. Mi si avvicinano due gendarmi – «Ne stationnez pas ici, Madame». Chiuso, il gran cancello dorato col catenaccio. Dall’altra parte Buffon guarda perplesso anche lui, il mento nella mano, dalla sua poltrona in cima al piedistallo. Di già?
Che strano, il lungo Senna. Ancora un po’ di gente in giro, sì. Ma come persi. Molte mascherine. Arthur Rimbaud sul suo bateau frêle di bronzo e vento ha un’aria sconcertata invece che beffarda, stamattina. All’Institut du Monde Arabe ci sono più bambini del solito che giocano sul grande piazzale – ah già, è vero, le scuole erano state chiuse già qualche giorno fa. Con l’annuncio solenne di giovedì scorso, con l’eloquio in tenuta da Union Sacrée, la France protège ses citoyens, quoi qu’il en coûte, intanto cominciamo a chiudere scuole, università, musei, cinema e teatri; e poi il salto mortale, surreale: però le elezioni le facciamo lo stesso.
ALL’INSTITUT non c’è nessuno. Salgo all’ultimo piano: sulla soglia del mio studio appare Dora Marcus, che nonostante studi il ritmo e l’armonia nella letteratura moderna mi sembra oggi singolarmente scoordinata e affannata – e poi anche molto pallida. Guizza alta dietro di lei l’anima di Dora Markus, l’ombra degli anni Trenta: «Ravenna è lontana. Distilla/ veleno una fede feroce… Ma è tardi, sempre più tardi». Persa nei miei ricordi montaliani quasi non sento quello che mi sta dicendo: before noon… Cosa? Entro mezzogiorno! Una mail che non ho ancora visto. La Cité Universitaire vuole sapere se confermiamo il soggiorno a Parigi, in caso di mancato avviso considererà che abbiamo deciso il rimpatrio. Entro mezzogiorno. Mi precipito, sbaglio tutto, il computer si pianta, sudore freddo: sono le 11 e 30.
A mezzogiorno meno dieci la mail riesce a partire. Ah era l’ultimo giorno dice Dora? Apro la mail del Direttore: sì. La mail è di pochissimi minuti prima. Ci avvisa che, benché non sia ufficiale, si suppone che nell’annuncio previsto per stasera Macron avvisi il popolo del lockdown. La Francia chiuderà del tutto, resteranno aperti solo alimentari e farmacie, chiude anche l’Institut, stanno già sbaraccando e infatti fa un freddo cane, abbiamo giusto oggi per raccogliere libri e carte e portare a casa tutto quello che serve.
Negli uffici – strana atmosfera: le porte aperte, le sedie scostate, ma – nessuno. Spettrale. Naturalmente la cantine non funziona già più. Ma in fondo alla mail c’era l’avviso che ci sono ancora yogurt e formaggi, ci si può servire. Scendo dopo l’una e trovo lo staff quasi al completo, ciascuno ha un po’ di formaggio sul piatto. Non c’è nessuno dei fellows, hanno già traslocato tutti, compresa Dora Marcus che per lavorare quattro mesi al suo libro si era fatta mandare da Oxford cinque scatoloni di altri libri – triste metafora dell’assurdità del nostro lavoro.
Mi accolgono pietosamente a uno dei tavoli – rigorosamente a debita distanza – ma appena comincio a porre domande su cosa succede a noi fellows senza un medico di base se restiamo contagiati e sviluppiamo sintomi – dato che già ora il 1500 è intasato perennemente, e la consegna è chiamare il proprio medico – nessuno ne ha la più pallida idea. A proposito, guardate la nostra carta regionale dei servizi. Sul retro c’è scritto: Carta europea. È un pio desiderio, più ancora che quello di un governo europeo. Né medici né dentisti qui ne sanno niente, anzi si irritano non poco. Per forza, è scritto in italiano.
VERSO LE CINQUE ho finito anche io di raccogliere le mie cose – e intanto ho anche assistito a un seminario di lettura online con un gruppo di dottorandi del San Raffaele. Su topics piuttosto iniziatici – neo-aristotelismo ontologico analitico, l’ultimo grido – non scherzo – in fatto di filosofia della fisica quantistica. Non scherzo – agli inizi del mese ero all’Aquinas Symposium di Oxford, era proprio su questo. Sostanze e quanti. Che non l’avresti proprio detto. Bellezza del nostro mestiere. Del passato non si butta niente, nemmeno le zampe. L’eterno ritorno. Un altro brivido da spaesamento spazio-temporale, ed è tempo di tornare a casa. Saluto con malinconia il mio bello studiolo con la finestrina sulla Senna, un silenzio tale che ci si affondava dentro come nella gioia. Le ore divenivano baie amplissime, dove il tuo pensiero diventava piccolo piccolo, une «quantité négligéable».
PRENDO una via più lunga, in bicicletta. Saint German, Saint Michel, Luxembourg. Volevo vedere se almeno quello… Sì, il Jardin du Luxembourg è ancora aperto. Me la prendo comoda, scendo dalla bicicletta, lo attraverso tutto, fino a Port Royal. Fino a quando non potremo più farlo? C’è un po’ di gente, nonostante il tempo bigio e freddo di oggi. Mi colpisce un dettaglio: solo anziani, immobili sulle sedie intorno al grande cerchio d’acqua, come fosse estate, e bambini che giocano, con balie e nonne. Gli adulti lavorano ancora. Ma poi incontro molti ragazzi, a coppie, allegri.
A Italie Deux volevo comprare un tablet per scaricare testi – visto che la stampante dell’Institut era già spenta. Al computer dopo un po’ fa male agli occhi. Mollo la bici e calo la mascherina per entrare nel grande insieme di supermercati. Niente da fare. Chiuso. Con un cartello che spiega già il discorso di Macron – prima che lui l’abbia fatto. Cosa vuol dire il potere del centro.
Arrivo a casa in tempo per lavarmi il lavabile, riordinare e ascoltare il Discorso alla Nazione, il terzo nel giro di pochi giorni. Proprio così, come annunciato e in parte già eseguito. La Francia chiude. «Siamo in guerra». Questa frase ripetuta per sei volte. «Non lasceremo nessuno ai margini della via, quoi qu’il en coûte». Per associazione, meccanica e angosciosa, mi torna in mente il clochard disteso sulla via che per poco stamattina non investivo, scendendo per Boulevard de l’Hôpital in bicicletta. Altro che margini della via, era proprio di traverso. Sdraiato, con le braccia intrecciate sotto la testa, un sorriso beffardo. E io vilmente ho svicolato, pensando che la scena del buon samaritano viola le statistiche. Chi si ferma? Tutti come me.
APRO IL COMPUTER. Una mail, che mi era sfuggita. Avverte tutti i dipendenti del San Raffaele che «Oggi sabato 14 marzo 2020 ricorre il centenario della nascita di don Luigi Maria Verzè (Illasi, 14.3.1920 – Milano, 31.12.2011), fondatore dell’Ospedale San Raffaele di Milano e del Brasile, nonchè della nostra UniSR». Don Luigi, senza le cui anomiche, rapaci ma geniali visioni, Milano strozzata nell’apocalisse non avrebbe oggi, nella corsa a creare nuovi posti di terapia intensiva dell’ultima settimana, 630 posti letto in più (di cui 65 in terapia intensiva e 60 subintensiva), e un nuovo reparto in arrivo per arginare il dramma del picco, in arrivo anche quello. Strano destino, per un visionario dell’angelo guaritore, compiere cent’anni, di cui novantuno vissuti in terra – proprio nei giorni della pandemia più feroce e impensabile della nostra memoria. Che brucia più di ogni altra terra proprio il tuo Lombardo Veneto. Chiudo le tende della grande finestra a vetrata. Tutta la luce di Parigi è spenta.
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