Sono molti, forse troppi i libri che, a distanza ravvicinata o persino ravvicinatissima, hanno tentato di raccontare cosa ha rappresentato la pandemia per noi. Anche diversi poeti, nelle raccolte uscite nell’ultimo paio d’anni, hanno provato a tematizzare, a interrogare il buco nero in cui siamo tutti precipitati, uscendone forse – come scrive Fabio Pusterla in un verso del suo recente Tremalume (Marcos y Marcos) – persino «più famelici» di prima.
Pochi libri, però, hanno la forza e la perentorietà dei Sonetti del giorno di quarzo di Aldo Nove (Einaudi, pp. 384, euro 17), una corposa raccolta di poesie di uno degli scrittori più imprevedibili dei nostri tempi. Da sempre Nove alterna la scrittura in versi a quella in prosa, che negli ultimi anni ha preso anche la forma apparentemente svagata ed episodica del post su Facebook, dove lo scrittore di Viggiù viene spesso bannato o sospeso soprattutto per le posizioni fortemente critiche nei confronti della gestione da lui definita «cosmofascista» della pandemia e di tutto ciò che essa ha comportato.

Ebbene, in questo libro che la quarta di copertina non esita a definire «assoluto, definitivo», Nove racconta, in 350 sonetti metricamente perfetti o quasi, quanto accade attorno a lui e dentro di lui dagli ultimi giorni del 2020 ai primi del 2022, con il passo costante e infallibile del diarista che non fa trascorrere quasi nessun giorno senza affidare alla pagina un commento, una sciabolata verbale, un ricordo struggente, una protesta politica costruiti con gli unici strumenti di cui un poeta dispone: le sue parole e il suo ritmo.

I SONETTI FLUISCONO apparentemente senza soluzione di continuità, ma una nota dell’autore e alcuni titoli in grassetto rivelano che Nove aveva progettato una struttura, poi parzialmente abbandonata, che prevedeva l’introduzione di un testo tematicamente discontinuo ogni quaranta sonetti (ogni quarantena, verrebbe da dire) dedicati alla mappatura del presente straniato, tra weird e eerie, che chi scrive si trova condannato a vivere. Con le armi della satira, che però non riescono a stemperare una profonda amarezza e una radicale disillusione, Nove fustiga con i suoi versi l’«inferno/ sociopatico», l’«indegno/ fingere collettivo», la «farsa spaventosa» in cui il mondo – e l’Italia in particolare – gli sembra essersi tramutato nei mesi della medicalizzazione e della burocratizzazione ossessiva dell’esistenza. La «scure/ dell’irreale» («Il regno di Schreber è giunto», annuncia la nota a fine libro), alleata con il «teledemente controllo» di quelli che, senza mezzi termini, vengono chiamati «videonazionalsocialismi», provoca l’indignazione quotidiana di questo scrittore da sempre recalcitrante a ogni etichetta, malgrado il ben noto passato da «cannibale».

Tanto più che la sua lingua poetica, che in questo libro si intreccia alla forma più antica e forse tematicamente più accogliente della nostra Tradizione, ondeggia in modo disinvolto tra le vette liriche che raccontano gli «istanti fulminei in cui la vita/ si trasfigura eterna» e la volgarità del porno (il sonetto 301 s’intitola Pompini) o dell’invettiva indignata di chi, malato di cancro, è costretto a sbottare in endecasillabi: «Non me frega più un cazzo del cancro/ Tanto un cancro/ oggi chi se l’incula ».

MA TRA LE PIEGHE del presente e sul rovescio della satira, i Sonetti del giorno di quarzo sanno anche accogliere altro: una riflessione sul senso della scrittura, per esempio, per capire se la «ridda di bozzetti» che un poeta viene affastellando abbia ancora una funzione, fosse soltanto quella di porre «confini artificiali al dispiegarsi/ di un annichilimento collettivo»; o ancora una profonda nostalgia di un passato ormai irraggiungibile, incantato anche se pieno di dolore, come quello in cui rovista il meraviglioso Il cuore che ci ha uniti, che rievoca i perduti «volti di luce e volti di sorrisi» dei genitori. E se da una parte il passato è quello radioso che Nove raccontò anche in Amore mio infinito, il suo secondo romanzo del 2000 recentemente ripubblicato da Crocetti, dall’altra chi scrive affida a questi sonetti anche una sorta di autodafé, di amaro bilancio degli «anni sprecati», quelli in cui lo scrittore di successo cedette alle lusinghe della tv, alle copertine dei giornali, ai «salottini del cazzo» che ora gli appaiono – così come il porno, un tempo furiosamente amato – vacui e fasulli.

NON STUPISCE, allora, che l’unica spinta verso il futuro, l’unico interlocutore possibile, al di là dei tanti maestri antichi e moderni richiamati nei versi o nelle dediche (da Petrarca a Leopardi, da Emily Dickinson a Sylvia Plath, da Milo De Angelis a Nanni Balestrini), in questo libro sia Dio. Un Dio, va da sé, bestemmiato e rinnegato, capronianamente schernito per la sua inesistenza, ma comunque capace di opporsi, quasi facinorosamente, al nulla, allo scandalo di «ciò che non c’è più / e si chiamava “mondo”». E poco importa, in fin dei conti, se si tratta di un Dio da pregare, come fa il sorprendente sonetto di chiusura, o solo dell’eterno spazio-tempo in cui «bene e male/ s’annullano»: «Universo mio infinito/ grembo, mia antica quiete minerale».