Se lo studio allontana il lavoro
Sconforto è la parola che forse definisce meglio lo stato d’animo di chi si ferma ad analizzare i provvedimenti per l’occupazione varati dal governo. Una misura in particolare salta subito […]
Sconforto è la parola che forse definisce meglio lo stato d’animo di chi si ferma ad analizzare i provvedimenti per l’occupazione varati dal governo. Una misura in particolare salta subito […]
Sconforto è la parola che forse definisce meglio lo stato d’animo di chi si ferma ad analizzare i provvedimenti per l’occupazione varati dal governo. Una misura in particolare salta subito agli occhi, e ferisce nel profondo: la proclamazione, di fatto, dell’inutilità degli studi. I posti di lavoro previsti infatti sarebbero riservati a giovani privi di titoli di studio come il diploma, e ovviamente la laurea.
Ci si sarebbe aspettati che il premier Letta dichiarasse che questa è una misura del tutto parziale e ancora insufficiente, dedicata soltanto a chi ha di meno e a chi parte con meno chances. Sottolinearlo nella presentazione del piano sarebbe stato almeno un atto di chiarezza. Ma questo avrebbe mostrato in modo esplicito i limiti di questa misura. Il problema infatti è tragicamente molto più vasto e riguarda i giovani tutti.
Certo i cosiddetti neet, giovani che non studiano e non lavorano, sono gli invisibili, le fasce più deboli e più colpite che alimentano in misura significativa quel 40% di disoccupazione giovanile che pesa come un macigno su ogni possibile futuro per il nostro paese. Ma la strategia di Europa 2020,che pure si occupa col progetto “Youth on the move” e con l’iniziativa “Opportunità per i giovani” di questo specifico target, si pone come obbiettivo l’individuazione di percorsi che favoriscano il ritorno all’istruzione e alla formazione.
Cresce un paese che non garantisca una solida istruzione di base, qualifiche e diplomi? Cresce un paese che è fanalino di coda in Europa per il numero dei suoi laureati, il 21% nella fascia 25/34 anni, a fronte della media europea del 35,8%, mentre l’Europa ci chiede di portare al 40% questa percentuale entro il 2020? Ogni lavoro, anche quello che può apparire il meno qualificato, ha bisogno oggi di maggiori conoscenze e competenze. In questi anni l’opera di impoverimento del sistema dell’istruzione pubblica è stata sistematica e ha lasciato ferite dolorose, forse difficilmente sanabili.
Ora si proclama ufficialmente che chi ha passato tanti anni a studiare, specializzarsi, formarsi professionalmente ed intellettualmente ha buttato via il suo tempo, i libri non servono. E si tratta di una decisione che pare sposarsi perfettamente con una tendenza che negli ultimi anni ha ridotto la scuola pubblica ad un sistema ferito e depotenziato, tenuto su dall’ostinazione e dall’amore per la scuola di generazioni di insegnanti e studenti che in quei valori continuano a credere.
Questa decisione del governo si inserisce poi in una generale tendenza all’abbandono delle facoltà universitarie. E’ da qualche anno che diminuiscono le immatricolazioni all’università. E certo numeri chiusi e sbarramenti vari non aiutano. Crollano le facoltà umanistiche, in particolare. Cioè quei luoghi della cultura in cui si è formata l’identità della nazione moderna, in cui vien custodita la memoria storica e letteraria di un intero paese. Negli ultimi 20 anni la riduzione di oltre il 25% delle iscrizioni nelle facoltà umanistiche è un dato che dovrebbe far paura a tutti. Sembra quasi il trionfo di una inconsistente banalità, dilagata però nella cultura delle classi dirigenti, quella secondo cui con la cultura “non si mangia”. Laddove invece tutta la storia di questi anni dimostra clamorosamente il contrario, la nostra industria culturale ha continuato a primeggiare nonostante tutto, e a rappresentare una voce importante del Pil nazionale. Ma anche le facoltà scientifiche conoscono una flessione drammatica, destinata a pesare negativamente sul futuro economico e produttivo del nostro paese. E alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi, soprattutto a quelli maggiormente preparati e qualificati e iperspecializzati, per la cui preparazione e qualificazione si è investito, non resterà che emigrare, anzi scappare. Agli altri, a quelli meno “schizzinosi”, ai “cervelli che non possono fuggire”, per trovare lavoro non resterà che coltivare l’ignoranza, in un paese che non sa o non vuole invece coltivare le intelligenze e la creatività.
Per fare scelte diverse sarebbe bastato ascoltare i rettori, gli insegnanti, gli studenti, per capire lo stato comatoso in cui versa il nostro sistema di istruzione ed individuarne le criticità proprio in rapporto al mondo del lavoro. Che avrebbe bisogno sempre di più per crescere di figure di alto profilo culturale e professionale. Costerebbe troppo un piano per il lavoro dei giovani tutti? Che si occupi del disagio e dell’eccellenza, che non dimentichi che è il sapere a produrre vantaggio economico, sociale e civile, capace di creare collegamenti e sinergie tra istruzione, formazione , lavoro anche attraverso incentivi alla ricerca e all’innovazione rivolti alle imprese? Forse sarebbe stato necessario non rinviare bensì cancellare l’acquisto degli F35, peraltro dismessi dagli Stati uniti, per avere gli indispensabili finanziamenti per coprire ampiamente un progetto più forte e coraggioso, senza andare a racimolare risorse dal Fondo di funzionamento universitario o dai Fondi europei, sottraendoli alle regioni che già utilizzano su obiettivi analoghi. Scegliere è difficile, ma è l’unica strada per governare.
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