Chi segue la poesia di Umberto Fiori sin dagli inizi conosce senz’altro le caratteristiche che la distinguono nel panorama contemporaneo: l’oggettività del tono, una lingua semplice e disadorna, una sintassi gestuale che a tratti mima quella del parlato, ma soprattutto la tendenza a rappresentare figure anonime, intercambiabili, collettive (la gente, uno, voi…) tra le quali l’io che parla si mimetizza, rinunciando a qualsiasi privilegio e distinzione di voce e di postura. Colpisce, con tali premesse, ritrovarsi tra le mani questo nuovo volume intitolato Autoritratto automatico (Garzanti, pp. 128, euro 18) che già dalla copertina sbandiera non una, ma ben dodici ritratti in formato fototessera dell’autore.

IL SENSO e in un certo modo la storia di questo libro sono subito chiariti, oltre che dal titolo, da una brillante Presentazione: a partire dal 1968, per più di cinquant’anni Umberto Fiori ha collezionato autoritratti automatici prodotti dalle macchinette per le fototessere, raccogliendo nel tempo in due grossi album 750 immagini della sua faccia. Se là fuori la Storia, negli anni della militanza politica dell’autore (1968-76), rifuggiva dal culto piccolo-borghese dell’individualità a favore della costruzione e della difesa di un Soggetto politico collettivo, in quello stanzino algido Fiori intraprendeva invece un lento cabotaggio Verso la faccia, come recita il titolo della prima delle tre sezioni. Faccia, però, non «volto» o «viso», né tantomeno identità o soggetto: il paradosso del libro sta infatti nella sua spiazzante capacità di trasformare quello che potrebbe essere scambiato per un tripudio di narcisismo (analogo a quello del selfie) in un «esercizio di anonimato», mediante il quale l’identità del soggetto viene decostruita o polverizzata, non difesa o celebrata, rivelandosi niente più che un «miraggio».

La faccia che ossessivamente la macchina riproduce e noi guardiamo, sembra dire Fiori, è nostra ma è anche altro da noi, qualcosa che «non ci appartiene», è «la nostra prima disgrazia» da cui non ci si può difendere e che si fatica a riconoscere, a sentire portatrice di una biografia. Riguardando gli album e scrivendo queste poesie, Fiori si rivede a fatica in «quel ragazzo lì nella foto/ con la maglietta a righe bianche e nere»: incontrarlo sarebbe come incontrare un estraneo, uno sconosciuto. Non si tratta, dunque, di narcisismo, ma dell’esatto opposto: la riproduzione seriale della sua faccia – dopo decenni di occultamento o tipizzazione – serve a Fiori per inverare la citazione che aveva già scelto, anni prima di Walter Siti, per l’epigrafe di Tutti (1998): «Je m’appelle Erik Satie comme tout le monde».

SE È UN NARCISO, insomma, quello che appare in queste pagine è un Narciso imbalsamato che invecchia e si autodegrada paragonandosi a un verme nella mela, a una pupa nel bozzolo, a una cernia nascosta nel buio. Parallelamente, la baracca delle foto diventa di volta in volta un vespasiano, un gabinetto, una cabina elettorale, il confessionale in cui si celebra un rito svilito e persino comico, perché nel libro, secondo gli auspici dell’autore, oltre alla riflessione in ogni pagina cova anche la risata, la smorfia che deforma la faccia in posa o «i baffi della Gioconda» che imbrattano l’immagine. Non stupisce, allora, che una delle poesie incluse sia una godibile parodia del sonetto autoritratto di Foscolo, né che il Colloquio fra il Ritratto e un giovane Visitatore – una sorta di operetta in prosa in cui, al centro del libro, il Ritratto discute con un colto e giovane amico del senso della sua operazione – sia introdotto da un’epigrafe tratta da una canzone di Elio e le Storie Tese, in cui degli adolescenti parlano di figurine.

A due terzi, poi, il libro svolta. La seconda sezione intitolata Altre poesie, a segnalare sin dalla soglia la sua disomogeneità, afferma e raccoglie ciò che la prima negava: istanti privilegiati di esperienza (l’improvvisa e montaliana apparizione del Nulla al bambino Fiori sulla strada per la scuola, o la vista di un piccolo ruscello in Austria), mentre Seconda singolare, l’ ultima sezione, rappresenta forse un unicum nella produzione di Fiori: una corona di poesie dedicate alle presenze del cerchio familiare, dove l’ironia si sostituisce al comico e la faccia isolata della prima parte conquista una storia e una relazione con gli altri.