Giovanni Fiandaca è un giurista che rifiuta il ruolo di «guardiano della legge», per usare l’espressione di Kafka. Se il diritto fosse una religione, Fiandaca non potrebbe certo essere annoverato tra i suoi sacerdoti. Egli è giurista malgré lui. Già il titolo del suo volume è una dichiarazione di intenti: non Pena bensì Punizione (il Mulino, pp. 178, euro 14). A Fiandaca non sta a cuore scrivere l’ennesimo saggio sulla giustificazione della pena ma riflettere sul significato della punizione per l’esperienza umana. La pena in ambito giuridico rappresenta una punizione istituzionalizzata ed è per questo che ha la sua importanza all’interno di una riflessione di ampio respiro sul senso del punire. Punizione è un saggio più filosofico che giuridico.

L’AUTORE si rifà a Nietzsche per sostenere che non è possibile individuare un’unica definizione della pena: tra le varie istanze di punizione è possibile riscontrare soltanto delle somiglianze di famiglia. Peraltro, anche in relazione alla sola pena giuridica è ingenuo andare alla ricerca di una giustificazione univoca ma bisogna riconoscere che essa svolge diverse funzioni e che il punto cruciale è quello di individuare il corretto bilanciamento tra esse. Esercizio non facile e, forse, addirittura impossibile. Per questo il punire dovrebbe essere accompagnato da un senso di insoddisfazione, legato alla consapevolezza che ogni punizione è un male necessario.
Queste osservazioni non devono oscurare il dato che, a livello costituzionale, la priorità è accordata alla tendenziale finalità rieducativa della pena, alla quale Fiandaca dedica riflessioni interessanti, senza mai rinunciare a metterne in risalto tutte le possibili zone d’ombra. Alla luce di queste considerazioni fa impressione il populismo giudiziario del tempo presente.
Nietzsche sostiene anche che la pena ha dei rapporti di parentela con la guerra e la festa; secondo Fiandaca, questo tratto ancestrale della pena stride con la «dimensione della razionalità in una accezione moderna».

È SUFFICIENTE questa osservazione per collocare Fiandaca nel solco della modernità. Egli è un autore accostabile a Sciascia: entrambi si aggrappano alla ragione come unica salvezza, pur senza la fiducia nel progresso morale che dell’illuminismo è un elemento irrinunciabile.
Tuttavia, la razionalità moderna è oggi guardata con sospetto; l’idea che la mente umana sia una sorta di «teatro cartesiano» sembra essere contraddetta dagli studi più avanzati di psicologia cognitiva e di neuroscienze. I processi mentali non sarebbero coscienti ma avverrebbero dietro le nostre spalle.
Per fare un solo esempio, Shai Danzinger rileva che la percentuale maggiore di decisioni innovative di una corte di giustizia è concentrata nelle prime ore della mattina, dopo la prima colazione, e nelle prime ore del pomeriggio, dopo colazione; ciò dipenderebbe dal fatto che il cibo aumenta la presenza di glucosio nel sangue e il glucosio incentiva l’attività del cervello.
Se le cose stanno così, gli aspetti emotivi della punizione possono essere mitigati. Non c’è tuttavia modo di neutralizzarli del tutto. Bisogna rassegnarsi a convenire con Hume che la ragione è schiava delle passioni.
Queste ultime considerazioni possono contribuire ad arricchire le pagine critiche che Giovanni Fiandaca dedica alla prospettiva della pena di Durkheim: «il castigo opera come (…)una forma di linguaggio che (…) serve a riaffermare (…) la validità delle norme etico-sociali violate».

IL PRESUPPOSTO di questa impostazione è che la morale di una società preesista all’eventuale castigo del trasgressore. Le cose però potrebbero essere più complicate: la punizione è lo strumento attraverso cui si costruisce la morale con metodi di condizionamento pavloviani.
Nel mondo nuovo immaginato da Huxley, al fine di estirpare dai cittadini delle classi inferiori la propensione per la lettura, si induce nei bambini di pochi mesi un sentimento di avversione verso i libri facendoli giocare con dei libri che emettono suoni striduli e producono scosse elettriche. L’obiettivo è quello di ingenerare un odio spontaneo nei confronti della natura e della lettura.
È possibile, insomma, che la funzione della punizione non sia quella di preservare la moralità di una comunità ma quella di costruirla.
In Punizione c’è un passaggio cruciale dal sapore autobiografico che merita di essere riportato per intero: «mi inquieta da tempo la convinzione, o quantomeno il dubbio che chi studia e insegna diritto penale ‘positivo’ (…) finisca, per ciò stesso e sia pure senza intenzione, col legittimare in qualche modo e misura il sistema dei reati e delle pene così com’è».
Anche un giurista borderline come Fiandaca non riesce a sfuggire al suo destino, che è quello di legittimare un certo diritto positivo e un sistema di valori e un determinato ordine sociale. Avere consapevolezza del proprio ruolo e della propria funzione è comunque l’unica strada per non abusare di questo ruolo e per contribuire a rendere il diritto uno strumento tollerabile.