Se le parole sono disabilitate
Cartografie Come si può raccontare il mondo, cercando connessioni in una lingua piena di pietre, macerie e morte? Una riflessione che chiama in campo l'arte (da Kiefer a Zaatari) come esercizio di storiografia
Cartografie Come si può raccontare il mondo, cercando connessioni in una lingua piena di pietre, macerie e morte? Una riflessione che chiama in campo l'arte (da Kiefer a Zaatari) come esercizio di storiografia
In una serie di incontri teatrali Gaza Ora. Messages From A Dear Friend, che è stato recentemente in tournée in Italia, scritte da Hossam Madhoun, raccolte da Ruth Lass e Jonathan Chadwick e messe in scena da Az Theatre di Londra (compagnia con cui Madhoun ha collaborato per molti anni), l’autore palestinese ha dichiarato che «le parole sono state disabilitate».
Come scrivere e parlare del mondo in una lingua piena di pietre, macerie e morte? È una domanda che si poneva la poesia di cenere di Paul Celan che continua ad ossessionare le opere dell’artista tedesco contemporaneo Anselm Kiefer mentre si confronta con l’atroce passato dell’Olocausto e con le rovine della storia europea, che si può avvertire nella mostra Angeli caduti, in corso presso Palazzo Strozzi, a Firenze (fino al 21 luglio). L’arte di Kiefer scava in profondità nella memoria del presente, e non solo quella della Germania, e sostiene un lutto artistico che ci collega anche alle immediatezze attuali di altri genocidi e diritti negati. Siamo invitati a fronteggiare e a elaborare questa terribile eredità e la sua insistenza attuale.
I paesaggi mortali dell’Europa e del Medio Oriente, come i territori del mondo colonizzato, insieme alle esecuzioni giuridiche odierni dei migranti nel Mediterraneo, sono tutti, come ha detto una volta l’artista libanese Akram Zaatari, gli archivi ultimi. Contro la bieca oscenità delle macchine di sterminio, e contro le legislazioni europee che cercano di punire e sopprimere le migrazioni dal sud del pianeta, sta l’inquadratura occidentale e coloniale del mondo che decide chi deve vivere e chi deve morire.
ALLA RICERCA DI CIÒ che sta al di là delle parole, gli artisti riaprono questi terribili archivi per bucare il tempo con altre narrazioni. Lungo il piano visivo e attraverso l’elaborazione musicale del mondo, arriviamo in un altro luogo. Questo, e coinvolgendo la suonatrice di oud e cantante palestinese Kamilya Jubran che ha suonato in compagnia di Mario Gabola e Nina Boukhari a Napoli il 28 giugno scorso, provoca un altro spaziotempo che si ritira e, al contempo, rimedia alla brutale economia politica del presente. Siamo spinti a guardare e ascoltare di nuovo.
Toccare i limiti del linguaggio ci porta al confine del ragionamento consolidato che insegue lo status quo. Se abbiamo a che fare con crimini che «fanno esplodere i limiti del diritto» e «superano e infrangono ogni sistema giuridico» (Hannah Arendt), allora intorpiditi da Auschwitz e lasciati senza parole a Gaza non dobbiamo semplicemente fissare l’abisso, ma anche registrare il nostro coinvolgimento.
Rifiutando le imposizioni del senso comune e la costruzione mediatica della realtà, l’arte può lavorare per portare alla luce connessioni perdute e riaprire il presente a ciò che è stato sepolto, dimenticato e abbandonato.
IN UN ECCESSO di linguaggio che spezza le catene della comunicazione puramente pragmatica, nelle opere massicce di Kiefer che superano le nostre pretese umane, o nelle storie sostenute e sospese nei suoni sperimentali di Kamilya Jubran, dove un’eredità musicale araba viene trasposta in percorsi multipli attraverso il passato e il presente verso il futuro, ci impegniamo con misure non autorizzate di tempo, spazio e vita. Scavando nei paesaggi in rovina del passato (Kiefer), trasformando i suoni di una tradizione poetica e musicale (Jubran), possiamo tornare con Akram Zaatari a ciò che rifiuta di scomparire.
QUI I MARGINI della spiegazione storica e sociologica si superano. I protocolli disciplinari che riconfermano la nostra soggettività attraverso un’oggettività presuntuosa vengono smascherati, disfatti e dispersi in una valutazione del tutto più mondiale. Proprio in questo itinerario, artisti come Kiefer, Zaatari e Jubran vengono in soccorso del pensiero critico. Nel loro ritorno al passato per riparare il presente, sradicano e reindirizzano le configurazioni contemporanee per smantellare un consenso soffocante e proporre altre modernità, altri mediterranei, altri…
IN QUESTA LUNGA ESTATE calda dal punto di vista politico e climatico, l’arte che emerge dai paesaggi in rovina dell’Europa coloniale e fascista, dalla devastazione della Palestina e dalle onde mortali del Mediterraneo, ci impone di ripensarci come soggetti implicati (Michael Rothberg, The Implicated Subject: Beyond Victims and Perpetrators, 2024), mentre l’arte stessa diventa un urgente esercizio di storiografia. Contro le immagini congelate di un passato apparentemente scomparso per sempre, incontriamo immagini e suoni scivolosi, incompleti e sempre in formazione, pronti a sprigionare altre storie, altre geografie, altri orizzonti di speranza, per stravolgere e rendere queer i linguaggi dell’autocompiacimento.
AGGIUNGENDO i recenti film Bye Bye Tiberias (2023) di Lina Soualem, Where Olive Trees Weep (2024) di Maurizio Benazzo e Zaya Benazzo, e The Teacher di Farah Nabulsi (2023), ci permettono di aprire varchi nella narrazione, attraversare i campi e i libri bruciati della storia, la cremazione del linguaggio morale e i paesaggi sfregiati della memoria per avventurarci nelle storie sedimentate che costituiscono la formazione violenta del presente.
Se, a questo punto, arriviamo ai confini in cui il linguaggio quotidiano non ce la fa e l’angelo della storia cade dalla scala della ragione, possiamo forse finalmente iniziare ad assumerci la responsabilità delle rovine e incominciare a costruire una casa rinnovata in questa comprensione.
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