Cultura

Se le ferite sono piene di pesci e il viaggio più lungo è quello della maternità

Se le ferite sono piene di pesci e il viaggio più lungo è quello della maternitàLorena Salazar Masso

NARRATIVA Per Sellerio, «Il canto del fiume», esordio della colombiana Lorena Salazar Masso

Pubblicato circa un anno faEdizione del 25 agosto 2023

Una giovane madre e suo figlio si imbarcano, insieme a un piccolo gruppo di passeggeri, su una lancia in partenza dalla capitale del Chocó, la regione più povera e dimenticata della Colombia, per risalire il fiume che la attraversa, tra rive assediate da una vegetazione sontuosa. Il bambino è di un nero quasi blu, mentre lei è bianca, e non c’è da stupirsene, perché quel figlio non l’ha generato, anche se lo sente completamente suo da quando, cinque anni prima, una donna ha bussato alla sua porta e le ha messo un neonato tra le braccia, per poi fuggire in lacrime.

SENZA ESITARE e quasi suo malgrado, la ragazza ha accettato una responsabilità inattesa e se ne è nutrita, fino al giorno in cui, per amore del bambino e spirito di giustizia, ha deciso di intraprendere un viaggio che potrebbe comportare una perdita insostenibile.
Così comincia Il canto del fiume, apparso di recente presso Sellerio (pp. 175, euro 15) nell’ottima traduzione di Giulia Zavagna: un breve romanzo che segna il debutto di Lorena Salazar Masso, nata nel 1991 e vissuta a lungo nel Chocó proprio come la sua protagonista, la cui voce asciutta e attenta accompagna il procedere del battello lungo un fiume che è «una ferita piena di pesci» (questo il titolo originale, ben più suggestivo di quello italiano). Con una scrittura dalla incantevole cadenza musicale, pronta ad attingere alle risorse dell’oralità, Salazar si serve del fiume come allegoria e come modello, per comporre un racconto in cui le vicende individuali si combinano con la presenza ammaliante e minacciosa della foresta, con le ingiustizie consumate a danno di una popolazione composta in buona parte dai discendenti dei popoli originari e degli antichi schiavi africani, e infine con le conseguenze di un lunghissimo conflitto armato.
Fonte di nutrimento, cimitero di corpi perduti, via di comunicazione non solo per agli abitanti dei villaggi, ma per i narcos, i contrabbandieri, i paramilitari e i guerriglieri, il fiume acquista via via dimensione di personaggio, tra il canto degli insetti, le fulminee apparizioni di animali favolosi o di uomini armati e le riflessioni della protagonista, intenta a chiedersi e a chiedere che cos’è davvero una madre, lei che si sente incompleta perché non ha concepito né partorito.

SE STA NAVIGANDO col figlio su un corso d’acqua «a volte bruno, a volte color cannella», che ha l’odore «di un album di fotografie aperto dopo molto tempo», è perché Gina, la madre «vera», adesso vuole vederlo, conoscerlo, chiedere perdono per averlo abbandonato. Solo all’arrivo il bambino saprà qual è il vero scopo del viaggio, e solo allora la protagonista si renderà conto che Gina non è «cattiva» come l’avrebbe voluta per contenderle apertamente il figlio, ma una vittima della guerra e della povertà, un’altra madre con cui sembra possibile creare una famiglia diversa, retta da due donne dissimili: qualcosa che non ha nome e tuttavia esiste.
Il canto del fiume è dunque un romanzo sulla maternità, o meglio sulle sue molte varianti e incarnazioni, che la allontanano visibilmente dai «modelli» prescritti, ed è anche un mosaico delle memorie di un’infanzia bianca, in un luogo dove quasi tutti sono neri: un’estraneità sofferta, che genera il desiderio di appartenenza della protagonista e la spinge verso una necessaria, intima sorellanza con le altre passeggere e la rude capitana del battello, nere come suo figlio.

L’ALTRO GRANDE TEMA affrontato da Salazar è la violenza in cui la Colombia è immersa: tacerne appare impossibile, anche se a volte raccontarla significa cadere in una «maniera» ormai ripetitiva. Salazar evita questo rischio dosando reticenze e dettagli con grande abilità, e intrecciandoli a inquietudini, ambiguità e indizi che creano una tensione in lenta ma percettibile ascesa. La tragedia acquattata nella foresta si fa avanti a poco a poco, fino a esplodere con esplicita brutalità e a rivelarci che quello sul fiume è stato, in realtà, un viaggio verso la morte.
Nelle ultime pagine, infatti, ci viene descritta con esplicita e straziante precisione una tragedia «per caso», in cui si può riconoscere il massacro avvenuto a Bojayá nel 2002, quando l’improbabile artiglieria delle FARC colpì per errore una chiesa dove si erano rifugiate oltre cento persone e ne uccise una settantina, quasi tutti bambini.
Non è sui corpi fatti a pezzi, però, che si chiude il romanzo, ma sulla voce di un donna che intona pietosamente un alabao (canto tradizionale che fa da ponte tra vivi e morti) vicino a una tomba scavata tra i limoni, come a riannodare il filo in apparenza troncato del minimalismo lirico che connota il racconto: una cifra stilistica non facile, di cui Salazar si mostra padrona, a conferma di un esordio felicissimo.

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