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Se l’architettura va contro la città

Se l’architettura va contro la città

Editoria Nel libro-dialogo sull’arte del costruire e sulla bellezza Maurizio Spada esamina il nuovo che avanza, arrogante, a Milano

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 22 marzo 2014

Forse non è tanto quel pezzetto di carta per cui si studia per anni, che ci permette poi di capire cosa realmente significa essere architetti. Probabilmente servono invece occhi capaci di vedere, e soprattutto capire, la città all’interno della quale la nostra opera si manifesterà. Occhi che possano umilmente vedere, amare e progettare la bellezza per tutti, per la comunità civile.

L’altro Architetto, dialogo sull’arte del costruire, sulla bellezza e alcune altre «quisquilie», libro dell’architetto Maurizio Spada (Casagrande, 9,00 euro), racconta di quell’altro architetto, di quell’altro sguardo, capace di soffermarsi sulla bellezza e il benessere di chi vive la città. I cinque capitoli del libro, sorta di dialogo socratico tra l’architetto e un giovane architetto neolaureato di nome Marc, si aprono, inaspettatamente per chi ingenuamente crede che fare architettura sia solo avere buone e valide idee compositive, con un primo capitolo che suona quasi come un avviso/monito: Architettura e Potere. «Nella situazione in cui ci troviamo oggi», spiega l’architetto Spada, «in cui l’economia è diventata trionfo del denaro e tutto è subordinato a mostrare potenza attraverso l’uso della tecnologia, nel caso dell’architettura questo si esprime nell’esibizione delle possibilità di arrivare, per esempio, a grandi altezze. Oppure, come nella zona Ex Fiera di Milano, nel costruire edifici scultura ed eventi provocatori, come il grattacielo Storto di Daniel Libeskind, che è architettura contro la città, e non per la città». Riconoscendo che forse le origini di un atteggiamento di questo genere possono risalire al Movimento Moderno che, ci spiega, «aveva rotto con la città a partire da Le Corbusier (che tuttavia aveva operato in un certo momento storico), oggi si è innescato un trionfo dell’architettura contro la città». E allora possono venirci in mente quelle tante situazioni in cui l’architettura non si confronta con il contesto urbano già esistente che la ospita, e dove il dialogo non esiste. Riferendosi agli ultimi quarant’anni di architettura a Milano, Spada fa riferimento proprio al progetto urbanistico – nato sotto la giunta Albertini – di Porta Nuova. «In principio eravamo stati convocati, io come architetto, per discutere sulle possibili destinazioni d’uso della zona. Si era pensato a una zona verde, a un parco, a dei giardini d’inverno, ma… è stato poi stravolto tutto e si è arrivati a questa soluzione, fatta in base alle necessità del committente. Così sono stati interpellati architetti di fama internazionale come Cesar Pelli… Ma cosa c’entra poi Pelli con Milano, questo proprio non lo so…». La torre a guglia dell’archistar Pelli (argentino-americano) in piazza Gae Aulenti, potrebbe essere in qualsiasi città del mondo, a Tokyo, a Buenos Aires, a New York, a Milano o Kuala Lumpur. Senza faccia, senza storia e senza nome. Si dice però piaccia alla gente, e questo forse, azzardiamo noi, grazie anche a un’ottima operazione pubblicitaria pagata proprio da committenti molto potenti. Per Spada, e probabilmente per alcuni suoi colleghi – certo non alla ricerca di architettura evento da prima pagina e auto celebrativa – quello spazio cittadino è un non luogo. Uno di quei non luoghi senza identità, senza appartenenza e riconoscimento, di cui aveva parlato l’antropologo francese March Augé. «L’edificio e la piazza sono non luoghi perché, in certi giorni, qui c’è il vuoto assoluto. La gente non vive questa realtà. E sappiamo che questi edifici sono per super ricchi e disabitati». Gli spazi, di una perfezione sintetica quasi irreale, non vengono in realtà percorsi, usati, sperimentati, abitati dall’attività quotidiana della popolazione che vive e respira la città. Le argomentazioni di Spada potrebbero sembrare critiche e contro ogni innovazione ma le cose non stanno proprio così. «Il problema non è il nuovo in sé», dice, «il rinnovamento è sempre esistito, ma qui la dimensione non permette la metabolizzazione da parte della città. Forse sarà digerito tra cinquanta, cento anni o, se sarà respinto, diventerà un ecomostro e verrà poi distrutto, come a volte succede». In una sorta di gioco pericoloso tra appagamento tranquillante e autocelebrazione, al cittadino viene semplicemente consegnato un messaggio che gli dice semplicemente «come siamo potenti, siamo riusciti a fare anche questo!». Molti, di fronte al progetto di Porta Nuova, dicono davvero «che meraviglia!» ma, sottolinea l’architetto, «l’uso di certa tecnologia, come le pareti specchiate, provoca, anche a livello fisico, dei disagi. Funziona come gli specchi di Archimede, dove gli edifici di fronte ricevono sulle proprie superfici esterne raggi convogliati che producono calore e malessere. Qui di ecologico non c’è proprio niente, e questi sono esempi di trascuratezza nei confronti del resto della città». Il nuovo non è contestato a priori ma, nel caso di certi edifici, spesso presuntuosi e arroganti, manca la volontà di rapportarsi alla città che già esiste e che dovrebbe ospitare la novità. Proprio nel libro è citata la Torre Velasca, realizzata nella Milano del dopoguerra dallo studio BBPR. Il progetto era stato studiato a lungo e messo in relazione all’architettura già presente in loco da secoli, inclusa quella medioevale delle torri. Che Spada non apprezzi l’agilità sconsiderata spesso tipica dell’architettura americana – che arriva ai casi limite delle Venezie di Las Vegas – è chiaro. Del resto, anche in mezzo al deserto, forse, bisognerebbe riuscire ad avere rispetto anche nei confronti di quell’assenza presente. In Porta Nuova, i grattacieli sono sorti velocemente. Ma, spiega Spada, «la questione fondamentale è che l’architettura ha bisogno di tempo, di tempi lunghi per essere capita e cominciare a essere apprezzata. Il problema che non viene capito è che il nuovo, fatto da tecnologie avanzatissime e capitali globali, può distruggere tutto il resto in un attimo». E, leggiamo proprio nelle 128 pagine del libro, dove vincono i Titani – questi Titani impenetrabili di acciaio e vetro e dalle altezze che superano sempre se stesse – scompaiono gli dei, quelli della Bellezza. Nella conversazion e con il giovane Marc, Spada trova supporto in tanti filosofi, pensatori, architetti. Le voci di Aristotele ed Elia Mircea, Michelangelo e Walter Gropius, Carl Gustav Jung e James Hillman ci parlano e possono, ognuno a modo suo, spiegare l’ecologia della mente necessaria per affrontare un’architettura più consapevole, rispettosa, sociale e sacrale. Già, quella cultura di tradizione sacra e territoriale che gli antichi chiamavano Genius Loci. C’è quindi bisogno di un’attenzione che possa ricondurci a una nuova invenzione di architettura e città, dell’uomo e per l’uomo. Spada suggerisce che oggi abbiamo bisogno di quelle qualità che, già nel Rinascimento, erano indicate come quelle atte a risvegliare la Bellezza: Ordine, Eleganza, Equilibrio, Coerenza. Ognuna sempre utilizzata ascoltando con attento rispetto l’ambito in cui si manifesterà. Non servono quindi le «Architetture Spettacolo» fatta di grandi numeri, altezze, visibilità, ma un’etica dell’estetica, quella paziente dell’artigiano, del fare con concentrazione, dedizione e, soprattutto, amore. Il neolaureato Marc, alla fine degli incontri, riuscirà a dire convinto: «Ho imparato che prima di essere architetti, si deve essere uomini», quindi capaci di scegliere con onestà il percorso lungo cui procedere, senza il bisogno di dare spazio a Ego smisurati. E senza neanche mai dimenticare che comunque, come ci ricorda Spada nell’ultima pagina, «questa società ha i politici e gli architetti che si merita». Sta quindi a noi scegliere e decidere.

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