Se l’anima canta perdita e bellezza
L'intervista La scrittrice, poetessa, giornalista e traduttrice islandese Guðrún Eva Mínervudóttir parla del suo romanzo «Metodi per sopravvivere». Con la sua opera tradotta da Iperborea, sarà ospite del festival «I Boreali» che si apre domani a Milano. «Ho l’impressione che la vita sia straziante e bella in egual misura. E posso immaginare che tutti i romanzi contengano una teoria su di essa. Ma si può leggere solo tra le righe»
L'intervista La scrittrice, poetessa, giornalista e traduttrice islandese Guðrún Eva Mínervudóttir parla del suo romanzo «Metodi per sopravvivere». Con la sua opera tradotta da Iperborea, sarà ospite del festival «I Boreali» che si apre domani a Milano. «Ho l’impressione che la vita sia straziante e bella in egual misura. E posso immaginare che tutti i romanzi contengano una teoria su di essa. Ma si può leggere solo tra le righe»
Inesausta staffetta esistenzial-narrativa in cui quattro personaggi del tutto eterogenei nella provincia islandese si passano ripetutamente il testimone della vita e del racconto, Metodi per sopravvivere (traduzione di Silvia Cosimini, Iperborea, pp. 192, euro 17) è il nono e ultimo romanzo della pluripremiata scrittrice, poetessa, giornalista e traduttrice islandese Guðrún Eva Mínervudóttir (Reykjavik, 1976), laurea in filosofia, debutto letterario nel 1998, ora in Italia come ospite dell’annuale Nordic Festival I Boreali a Milano da oggi al 19 marzo. Già nota al pubblico italiano dal 2010 per la pubblicazione dei romanzi Il creatore (2010), Il circo dell’arte e del dolore (2012) e Tutto si risveglia con un bacio (2013) – tradotti da Silvia Cosimini per l’editrice astigiana Scritturapura – Mínervudóttir torna a raccontare il sottile e friabile crinale che separa e unisce la speranza alla disperazione, l’aspettativa alla rassegnazione, la vita alla morte, senza mai dare una risposta definitiva, perché cercare di attaccare un’etichetta al rovente magma esistenziale risulterebbe operazione tanto perigliosa quanto inutile.
In una sonnecchiosa tarda estate nella provincia di Reykjavik, le vite di Hanna, Árni, Aron Snær e Borghildur si incontrano tendendosi la mano come in una danza macabra, al di là quel che in vita può sembrare dividere un’adolescente anoressica, un pensionato invalido, un bambino abbandonato e una vedova di mezza età. La voce del racconto è di volta in volta quella di uno dei quattro, che raccoglie il testimone di chi lo precede per proseguire, ripercorrere o addirittura precedere la narrazione di una storia che in fondo è unica. Ma lo scopo dell’originale strategia narrativa non è quello «tetico» di mostrare banalmente come non esista una realtà oggettiva, quanto di raccontare in corsa il farsi stesso di quella realtà tutta umana che prende il nome di storia. Ne abbiamo parlato con la stessa scrittrice.
Che cosa ne pensa dell’idea della sua narrazione come di una staffetta ininterrotta in cui la vita passa continuamente il testimone alla morte, la speranza alla disperazione e viceversa, in modo tale che nessuno dei due elementi sia mai davvero protagonista? C’è una lotta tra questi elementi, una dialettica costruttiva, o una semplice alternanza casuale?
Ho l’impressione che la vita sia straziante e bella in egual misura. E talvolta entrambe le cose nello stesso tempo. Perché qualcosa ci tocchi profondamente deve contenere un elemento di morte e di perdita. Oppure un elemento divino, che ci ricordi la nostra natura eterna. E niente serve quanto la morte e la perdita per metterci in contatto con il lato eterno di noi stessi. Il canto dell’anima può racchiudere tutto: morte, perdita, speranza, disperazione, bellezza, dolore, crescita e nascita di qualcosa di nuovo. Non so se questo sia vero, ma posso immaginare che tutti i romanzi contengano una teoria sulla vita. Ma è una teoria che si può leggere solo tra le righe. Non può essere riassunta in una frase, né raccontata in modo diretto. Può essere percepita all’interno della storia. Se dovessi provare a riassumere la teoria di questo romanzo, potrebbe suonare più o meno così: la vita è fondamentalmente buona, ma allo stesso tempo è una camera di tortura.
Nel suo romanzo, quale rapporto crede vi sia tra speranza e pura e semplice «volontà di vivere»? Sono due cose connesse o qualcosa di totalmente diverso?
Anche se sono connesse, non sono la stessa cosa. Per esempio, quando Àrni perde ogni speranza che la sua amata possa ricambiarlo, non perde la «voglia di vivere». Si potrebbe dire addirittura che la sua vita si apre per lui in un modo nuovo. Hanna non è priva di speranza, ma in quanto anoressica sta flirtando con la morte. Per Aron è soprattutto la speranza che il padre possa amarlo e prendersi cura di lui a essere fonte di dolore. Forse però, abbandonare la speranza in una cosa particolare ci apre alla speranza in generale. Sperare che la vita ci fornisca ciò di cui abbiamo bisogno – che magari è anche la stessa cosa che vogliamo segretamente, una cosa diversa da quella che coscientemente pensiamo di volere.
La compassione è un elemento importantissimo in questo romanzo: i personaggi (Árni, soprattutto), la considerano in modo negativo, eppure la compassione sembra essere allo stesso tempo la potenza che nutre quel «sopravvivere» di cui parla il titolo del libro. È così? «La vita ti sbrana e intanto ti guarda negli occhi con compassione» leggiamo.
È assolutamente così. La compassione è legata alla sopravvivenza in modo complicato. Árni, Hanna e Borghildur si salvano ciascuno tendendo la mano al quarto personaggio principale: l’undicenne Aron, che rischia di diventare un caso perso. Aron è ancora giovane e pronto a relazionarsi con gli adulti come un bambino, ma tra uno o due anni potrebbe non essere più così. I personaggi vedono la compassione non come qualcosa di negativo, ma per sentire o ricevere compassione è necessario aprire il proprio cuore, anche se questo tipo di apertura può essere pericolosa e dolorosa. Aprirsi alla vita significa lasciarsi sbranare e amare. La vita è un amante con artigli molto affilati.
Un fattore fondamentale nel racconto sembra essere appunto la differenza tra la giovinezza e l’età adulta: Hanna e Aron da una parte, Borghildur e Árni dall’altra. C’è un aiutarsi reciproco tra loro, o sono i primi a dover necessariamente sopravvivere a discapito dei secondi, perché questa è la legge della natura?
Nel romanzo vediamo gli adulti fare del loro meglio per prendersi cura dei ragazzi, ma non tutti gli adulti sono davvero capaci di farlo. E anche quando ne sono capaci, i ragazzi devono sopportare e trarre il massimo dalle loro emozioni, proprio come tutti gli altri. Gli adulti capaci non possono proteggere i ragazzi da lezioni di vita difficili, né dovrebbero farlo. Ma i ragazzi in difficoltà costringono gli adulti ad essere all’altezza della situazione e a crescere di conseguenza. Come nella maggior parte delle relazioni dinamiche, non è così ovvio e così evidente chi sta aiutando chi.
Nel racconto vi sono anche degli assassini, c’è della gente violenta in giro, eppure i suoi protagonisti non chiudono mai a chiave le porte di casa e non rinunciano a percorrere le strade di sempre, sebbene siano diventate pericolose. Spirito islandese o una semplice caratteristica contingente dei suoi personaggi?
Credo si tratti dello spirito islandese, dal momento che non ho percepito la cosa come insolita. Se le persone hanno la libertà di camminare per strada senza paura, non sono disposte a rinunciarvi facilmente. È stato commesso un omicidio, è vero, ma non c’è motivo di pensare che ci sia un serial killer in giro alla ricerca della prossima vittima. I ragazzi non vogliono essere destinati per sempre ad avere paura di percorrere il sentiero nel bosco, quindi si sfidano a vincere la loro paura. Anche se in realtà, in questo caso, è soprattutto Hanna a voler percorrere lo stesso sentiero il giorno dopo aver trovato un indizio pericoloso: probabilmente questo fa parte del suo flirtare con la morte.
L’amore salva o distrugge? Spesso lei sembra descriverlo come una «malattia».
L’amore fa male. L’amore ci rende vulnerabili. L’amore a volte fa emergere i lati più estremi della personalità. Credo che l’amore vero – che consiste nel volere il meglio per l’altro, senza badare a un tornaconto personale – sia una grazia salvifica sia per l’amante che per la persona amata, mentre l’amore erotico ha una qualità più distruttiva e può scivolare nella dipendenza. La maggior parte delle relazioni sentimentali sono un misto di entrambi. Agape ed Eros. Personalmente non vedo l’amore come una malattia, ma sono consapevole dei pericoli e delle insidie insite nell’amore romantico.
Focus su Elisabeth Åsbrink e i Paesi Baltici
La nona edizione de «I boreali», festival della cultura del Nord Europa, organizzato dalla casa editrice Iperborea, con il Teatro Franco Parenti e il patrocinio del Comune di Milano, si svolgerà da domani al 19 marzo. La serata inaugurale (domani, ore 18.30, ingresso gratuito con prenotazione) è dedicata alla scrittrice svedese Elisabeth Åsbrink, in dialogo con Wlodek Goldkorn. Sabato 18, alle ore 11,30, finestra sul Baltico con un incontro sul numero 23 di «The Passenger» dedicato a Lituania, Lettonia ed Estonia. Ci saranno poi Jan Brokken e Pajtim Statovci. Infine, la domenica boreale è un omaggio a Stig Dagerman, a cent’anni dalla nascita, a «Kallocaina» di Davide Coppo e Irene Graziosi. E fra gli ospiti, Fredrik Sjöberg, Guðrún Eva Mínervudóttir (per la prima volta) e Jón Kalman Stefánsson.
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