Cultura

Se «l’angelo custode» si chiama Woodstock

Se «l’angelo custode» si chiama WoodstockUn’installazione a Aielli

Scaffale L'esordio in noir di Leo Giorda per Ponte alle Grazie. La presentazione oggi alle 18,30 a Tomo Libreria di Roma con l’autore e Boris Sollazzo

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 12 ottobre 2022

Woodstock, «è un personaggio particolare, al primo impatto sembra un normalissimo tipo da centri sociali, capello lungo, felpona, pantaloni larghi. Il classico soggetto da concertone del Primo maggio…». Solo un coatto, e pure spacciatore, potrebbe mescolare l’antagonismo dei centri sociali col mainstream del più grande festival pop d’Europa, appunto, il concerto dei confederali a San Giovanni. Oppure solo un personaggio border potrebbe cogliere lo sbriciolamento delle identità e le ibridazioni delle sottoculture.

WOODSTOCK, al secolo Adriano Sala, è il protagonista de L’angelo custode, esordio del 27enne Leo Giorda per Ponte alle Grazie (pp. 272, euro 16), ultimo arrivato sullo scaffale dei detective atipici. Una tendenza che parte da lontano, almeno da quando l’hard boiled ha trasvolato l’Atlantico. In Francia c’è l’ex anarchico Nestor Burma, creato nel 1943 da Léo Malet o, senza allontanarci troppo, a Milano possiamo incontrare il Gorilla di Sandrone Dazieri, «avanzo» di Leoncavallo, l’Alligatore di Massimo Carlotto e il genovese Bacci Pagano di Bruno Morchio, entrambi reduci degli anni ’70.

Si tratta del tipo letterario in grado di cortocircuitare l’inclinazione consolatoria del romanzo giallo, la sua tentazione al «ripristino della legittimità delle istituzioni preposte al controllo sociale», come spiegava proprio su queste pagine Benedetto Vecchi già 15 anni fa a proposito del ruolo politico delle serie tv poliziesche: esorcizzare la paura del crimine, spianare la strada a tecniche di controllo sociale sempre più invasive allontanando da sguardi indiscreti il patto criminale tra criminalità organizzata, imprese e politica.

Prove tecniche di law and order che, in Italia, non reggono al confronto con l’esperienza diretta, quotidiana, dello stillicidio di abusi compiuti dalle forze dell’ordine nell’esercizio delle loro funzioni. Ecco perché un detective atipico regge meglio la prova della credibilità anche quando, come nel caso di Woodstock, la sua capacità investigativa è legata più all’uso di sostanze (molto più leggere di quelle scelte da Conan Doyle per Sherlock Holmes) che alle doti di lettura sociologica del contesto.

CON UNA NOTEVOLE CAPACITÀ di scrittura, il giovane Giorda costruisce una coppia seriale di investigatori muovendosi tra suggestioni di genere anche cinematografiche – l’argomento della sua tesi di laurea è stato il film Lo chiamavano Jeeg Robot – accoppiando il fricchettone di cui sopra con un poliziotto più classico, il vicequestore Giacomo Chiesa, immaginato senza reticenze ma anche senza scorciatoie manichee. Ne viene fuori un poliziotto apparentemente tutto d’un pezzo, con inclinazioni all’abuso in divisa e un’umanità che, probabilmente, emergerà più spiccatamente nelle prossime eventuali puntate.

Tutto comincia col ritrovamento del cadavere decapitato di un ragazzino di undici anni. La location è il quartiere romano di San Lorenzo ma l’autore non si lascia incapsulare nei canoni del «Giallo dop», la spiccata enfatizzazione del paesaggio urbano tipica di molto noir ma non sempre autentica.

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