Se la vergogna diventa un dispositivo sistematico
SCAFFALE «L’era dell'umiliazione», della scrittrice e matematica Cathy O'Neil per Utet. Come le aziende, i social media e gli algoritmi alimentano il disprezzo
SCAFFALE «L’era dell'umiliazione», della scrittrice e matematica Cathy O'Neil per Utet. Come le aziende, i social media e gli algoritmi alimentano il disprezzo
Cathy O’Neil è un’autrice affermata grazie al suo Armi di distruzione matematica (2016, Bompiani 2017 – e di cui su queste pagine ha scritto Teresa Numerico, ndr) con cui ha vinto l’Euler Book Prize. Matematica e scrittrice statunitense, viene ora proposta da Utet la sua monografia (uscita negli Usa due anni fa) L’era della umiliazione. Come le aziende, i social media e gli algoritmi alimentano la macchina della vergogna che ci domina (pp. 253, euro 22, traduzione di Costanza Prinetti). Se la vergogna è qualcosa che proviamo, si tratta per O’Neil di «una sensazione derivata da una norma, che può riguardare il corpo, le abitudini o i principi morali».
Esiste dunque un grado di intensità una disparità materiale e di classe che talvolta non solo fa convergere la vergogna con un dolore ma anche con uno stigma che, in svariate tipologie, rafforza una serie di tabù. Alcuni di essi sono legati alla sopravvivenza di una comunità o di un gruppo, altri a una dimensione più primigenia. È interessante notare come, nonostante la situabilità perlopiù negli Stati Uniti delle condizioni di cui parla l’autrice, lo shaming sia esperienza comprensibile da un capo all’altro del mondo.
COSÌ L’UMILIAZIONE che segna, a ogni latitudine, un metodo preciso a conferma dell’oltraggio reiterato in cui una larga parte dell’umanità vive. Dal rifarsi il naso a una costosa dieta, dalla tossicodipendenza alla povertà, dalla vergogna on-line per cui gli algoritmi ad apprendimento automatico si ottimizzano per incitarci allo scontro, è utile leggere il volume di Cathy O’Neil perché dal paradigma della vittima (spesso auto-inferto) si passa al capro espiatorio di girardiana memoria così come alle direzioni che lo shaming (O’Neil si concentra sul fat shaming) può assumere per opprimere ancora meglio chi ne è bersaglio (di un gruppo, di un singolo o anche di se stesso).
Del sistema industriale della vergogna che reindirizza la colpa, la matematica e scrittrice offre alcuni esempi: molte statunitensi negli anni cinquanta si lavavano la vulva con un prodotto chimico (contenente cresolo) convinte da una tattica pubblicitaria della ditta produttrice che alludeva alla disinfezione delle parti interessate ma soprattutto alla riduzione repulsiva dei mariti verso certi afrori.
Eppure la cosiddetta «industria del benessere» ha da sempre un occhio di riguardo verso i corpi: negli Stati Uniti si spendono 40miliardi all’anno per integratori volti alla massa muscolare, per apparire più giovani eccetera. Nella cosmetica della vergogna, vasti sono i profitti, altrettante le violenze. E l’umiliazione che diventa spettacolo globale attraverso i social non fa che moltiplicare il fomento reciproco (proporzionale a una impotenza collettiva).
NUMEROSE PAGINE sono dedicate anche a buone prassi, tenuto conto che «biasimare è sempre più facile dell’aiutare» e che il punching down ha una narrativa vocata all’infierire e alla dipendenza che alimentano speculatori e business plan. A differenza di ciò che accade nell’insorgenza, e in un altro «movimento» che è in molti sensi l’altra faccia – secondo O’Neil – della vergogna: ovvero il perdono. Parola potente e di guarigione, un po’ più difficile da praticare.
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