Se la traduzione è una pratica inconfondibile
Express La rubrica sulla cultura che fa il giro del mondo
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Ecco un libro che ci piacerebbe avere tra le mani: l’ha scritto David Karashima, romanziere e traduttore anglo-giapponese, il titolo in inglese è Who We’re Reading When We’re Reading Murakami, «Chi leggiamo quando leggiamo Murakami», e uscirà il primo settembre per Soft Skull Press, sigla indipendente di New York. Purtroppo per ora dobbiamo accontentarci della scheda editoriale, sperando che l’opera mantenga le promesse: «Trent’anni fa, quando le prime opere di Haruki Murakami furono tradotte, facevano parte di una collana di tascabili rivolta agli studenti di inglese ed edita solo in Giappone. Oggi i suoi libri si leggono in cinquanta lingue, hanno vinto premi e venduto milioni di copie su scala globale. Come ha fatto un autore particolare, destinato a un pubblico di nicchia, a diventare uno dei più celebri scrittori viventi?».
La domanda è tanto più interessante, perché la ricerca condotta da Karashima e nutrita di scambi epistolari e di interviste (anche a Murakami stesso) si estende oltre il caso dell’autore di Norwegian Wood. Nell’analisi del making of della «industria Murakami», si aprono infatti – sempre stando all’editore – interrogativi validi per tanti scrittori di fama internazionale: «Che ruolo giocano traduttori e editor nell’inquadrare i testi degli autori?
Cosa vuol dire tradurre e fare editing ‘per un mercato’? In che modo la cultura giapponese viene confezionata e esportata in occidente?».
Quello cui la scheda allude e che una nota del Literary Saloon di M.A. Orthofer rende esplicito è che i primi testi di Murakami tradotti in inglese subirono «revisioni» e tagli sostanziosi, tanto che nel copyright di Hard-Boiled Wonderland [and the End of the World], edito da Hamish Hamilton nel 1991, si specificava che il romanzo era stato «tradotto e adattato da Alfred Birnbaum con la partecipazione dell’autore». (In italiano La fine del mondo e il paese delle meraviglie è uscito nel 2002 per Baldini Castoldi Dalai e poi per Einaudi, sempre nella traduzione dal giapponese di Antonietta Pastore).
Nel 2021, per fortuna, i lettori anglofoni potranno leggere il romanzo in una nuova versione, presumibilmente integrale. A firmarla è Jay Rubin, professore emerito di letteratura giapponese a Harvard, che in un’intervista al Japan Times rende comunque omaggio al suo predecessore: «Senza dubbio è lo stile vivace di Birnbaum ad avere reso possibile il decollo di Murakami».
Che questo sia vero o no, indubbiamente la qualità della traduzione influisce sulla ricezione di un testo. Per restare in ambito giapponese, se Banana Yoshimoto è molto più nota in Italia che in altri paesi, lo si deve anche o soprattutto a Giorgio Amitrano che ha trovato un’intonazione particolarmente felice traducendo i libri della scrittrice.
Ma ci sono casi più vicini a noi: è appena uscito negli Usa da Europa Editions The Lying Life of Adults, versione inglese dell’ultimo romanzo di Elena Ferrante. L’accoglienza non è entusiasta: «Fosse un romanzo giovanile di formazione, si potrebbero lodare i numerosi lampi di fulgore e perdonare gli eccessi. Per una fuoriclasse, la sua puerilità è un mistero», scrive Judith Thurman sul New Yorker.
Su un punto però i recensori concordano: la versione di Ann Goldstein è ottima. «Goldstein ha tradotto tutta l’opera della Ferrante, e molti lettori bilingui pensano che abbia migliorato la sua prosa», dice Thurman. E la scrittrice Jenny McPhee, interpellata da Joumana Khatib sul New York Times, rincara: «Ann è ovunque in quei libri… Se se ne fosse occupato qualcun altro, forse non sarebbero decollati». Una frase che abbiamo già sentito, che sia il caso di prestare attenzione?
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