Se la scuola difende l’identità di genere
Ddl Zan Leggiamo il ddl Zan immaginandoci in una scuola secondaria di secondo grado. In classe c’è un ragazzo, Paolo, che parla di sé al maschile: si sente, e dice di essere, […]
Ddl Zan Leggiamo il ddl Zan immaginandoci in una scuola secondaria di secondo grado. In classe c’è un ragazzo, Paolo, che parla di sé al maschile: si sente, e dice di essere, […]
Leggiamo il ddl Zan immaginandoci in una scuola secondaria di secondo grado. In classe c’è un ragazzo, Paolo, che parla di sé al maschile: si sente, e dice di essere, maschio. Ma sul registro – e all’anagrafe – si chiama Paola, perché purtroppo le scuole come il Liceo Ripetta di Roma sono poche. Ipotizziamo che subisca una discriminazione – che, beninteso, non significa chiamarlo «Paola», atto che denota ottusità burocratica e mancanza di sensibilità, ma non una discriminazione sanzionabile.
L’atto «davvero» discriminatorio sarebbe punibile se la legge si riferisse solo al sesso o all’orientamento sessuale? No, perché il suo essere anagraficamente e biologicamente donna è pacifico, e nulla è dato sapersi circa la sua attrazione verso maschi o femmine. Sarebbe punibile se nella legge fosse scritta la protezione verso «le persone transessuali»? No, perché Paolo non lo è, non avendo cominciato la transizione sul piano medico-legale.
E quindi? La conclusione è che se si vuole proteggere Paolo-che-sul-registro-è-Paola serve una espressione per definire la «causa» dell’odio altrui, e tale espressione è «identità di genere», opportunamente indicata nel ddl già approvato dalla Camera e ora all’esame (si fa per dire) del Senato. Ragazzi e ragazze come Paolo, peraltro, non sempre si situano nettamente nel maschile o nel femminile: l’identificazione di sé può essere fluida, «nel mezzo», cangiante. A maggior ragione in casi come questi ultimi serve riconoscere una condizione concreta così complessa attraverso l’espressione «identità di genere». Come non si stanca di spiegare chi da anni studia, applica o fa applicare il diritto antidiscriminatorio, «identità di genere» non è una bizzarra invenzione di un legislatore apprendista stregone, ma è un concetto già riconosciuto sia dal diritto e dalla giurisprudenza internazionali, sia da norme italiane (anche regionali) e da sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione.
Anche se fossero finalmente protette dalla legge penale, persone come il nostro studente avrebbero comunque bisogno anche di altro, e cioè di prevenzione. Il mondo degli adulti, in primis nella scuola, deve fare di tutto per evitare che siano commessi atti contro di loro, educando al riconoscimento e al rispetto delle differenze. Il ddl Zan opportunamente non ignora questo aspetto, facendo riferimento alla scuola all’articolo 7, dedicato alla Giornata del 17 maggio contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia.
I senatori (in particolare quelli di Italia viva) sapranno senz’altro che in tale articolo viene richiamato quanto già prevede una legge-simbolo dell’epoca renziana, la «Buona scuola», che già stabilisce – onore al merito – la necessità di interventi educativi per prevenire «tutte le discriminazioni» (articolo 1, comma 16). Non cambierebbe quindi granché se venisse approvato il ddl Zan, salvo il fatto che si darebbe un grado di maggiore ufficialità alle iniziative che molte scuole già realizzano ogni 17 maggio. C’è chi si spaventa di questo, immaginando insegnanti che, come soldatini comandati dal Legislatore, si lanciano a indottrinare giovani menti sulla scissione sesso-genere. Sono le stesse, identiche, paure che venivano agitate contro quel comma della «Buona scuola» di Renzi dai cattolici oscurantisti, ignari di cosa accada davvero nelle aule.
Lì dentro il contrasto all’odio non segue rigidi schemi ideologici, ma aderisce alla concretezza mutevole e incasellabile delle esperienze vissute e raccontate. Ma lì dentro si consumano anche, quotidianamente, abusi e discriminazioni. Che è ciò di cui avere davvero paura.
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