Nelle recenti elezioni comunali oltre metà degli aventi diritto non ha votato. Ma l’astensionismo non coinvolge in egual modo tutti i cittadini. Una ricerca dell’Istituto Tecnè mostra il legame esistente tra motivazione al voto e condizione sociale. Così veniamo a sapere che il 12 giugno, alle amministrative, ha votato solo il 28 per cento degli elettori a basso reddito. La percentuale sale al 63 per cento tra i redditi medi e balza al 79 per cento tra i redditi alti. Chi sta meglio manifesta, dunque, una maggiore propensione al voto. Chi sta peggio ritiene inutile recarsi al seggio. Tra astensionismo e marginalità sociale, insomma, c’è correlazione. La classe sociale di appartenenza ha un peso rilevante nella partecipazione al voto e la questione non si risolve (solo) modificando la legge elettorale, come si vorrebbe far credere. Nell’ottica di chi sta in basso nella scala sociale e vede che non cambia nulla, il voto rappresenta una perdita di tempo, il non voto diventa una forma di protesta contro le forze politiche e le istituzioni in toto.

L’ultimo rapporto Istat, ci parla di condizioni di difficoltà e di povertà crescenti. Caro-vita e caro-energia, sommati al costo dell’affitto o del mutuo, stanno sconvolgendo il fragile equilibrio finanziario di milioni di famiglie. Basta poco, una malattia imprevista o la perdita del posto di lavoro, perché una famiglia monoreddito scivoli in povertà assoluta. Questo è lo stato di fatto: donne, giovani, lavoratori sopravvivono con lavori precari e salari di fame, i più bassi d’Europa, fanno i conti ogni giorno con un Welfare scassato e subiscono sulla propria pelle discriminazioni e ingiustizie. A questo punto sorge il dubbio che i decreti – Sostegni, Ristori, Aiuti – finanziati con 200 miliardi di scostamenti di bilancio (maggiore debito pubblico), siano stati concepiti male e spesi peggio.

In effetti, in Italia, le cose, non vanno male per tutti. C’è chi soffre per le ristrettezze economiche e chi, invece, scialacqua con i soldi pubblici. Il problema sta tutto qui. Ai benestanti, senza un battito di ciglia, il governo distribuisce 33 miliardi di «superbonus» per ristrutturare prima e seconda casa, ai poveri le briciole. La politica dei bonus prende il posto dello Stato sociale. E dopo trent’anni di pax salariale, di conflitto sociale moderato o inesistente, ci ritroviamo con processi di redistribuzione che risultano del tutto sganciati dai reali bisogni, seguono l’interesse dei più forti e contorti percorsi clientelari ed elettoralistici. Ci sono figli e figliastri. Con la manovra di bilancio e i provvedimenti fiscali, il governo Draghi, nel pieno di una crisi drammatica, è riuscito nell’operazione di tutelare profitti, rendite, patrimoni e posizioni di privilegio, trascurando i redditi da lavoro. Non ci potrebbe essere smentita più clamorosa della teoria (liberista) dello «sgocciolamento» (trickle-down). C’è poco da stupirsi, dunque, per il crescente astensionismo. Gli esclusi e i perdenti continueranno a disertare le urne, mentre i ricchi, i vincenti, anche gli evasori, andranno a votare, eccome, per le forze di destra.

Il Pd, nel ruolo di sentinella del governo Draghi, non sembra interrogarsi abbastanza su come recuperare al protagonismo sociale e democratico quel 72 per cento di cittadini a basso reddito che non va a votare. Si culla nel successo elettorale del centrosinistra alle amministrative di giugno. Eppure, la sorpresa positiva dei candidati «civici» di Verona e Catanzaro dovrebbe rafforzare, non ridurre, l’urgenza di una riflessione critica sulle ragioni dell’astensionismo. La vittoria in città storicamente difficili e moderate è da attribuire, infatti, più a un rapporto positivo con l’opinione pubblica dei neo-sindaci Damiano Tommasi e Nicola Fiorita, che non a particolari meriti del Pd locale. Il 7 per cento del Pd a Catanzaro, anzi, segnala una grave frattura politica, culturale e sociale con la città, oltre che con i segmenti più deboli della società. Viene espugnato il municipio ma il Pd registra un crollo di consensi.

Nel modo in cui è maturata la vittoria dei neo-sindaci di Verona e di Catanzaro c’è l’indicazione da seguire. Tommasi e Fiorita non hanno creduto nei sondaggi, all’agorà digitale e mediatica hanno preferito le piazze reali, si sono impegnati con i cittadini per servizi più efficienti, per una maggiore cura del territorio e dell’ambiente, per farla finita con l’opacità amministrativa nella gestione dei beni comuni e delle concessioni pubbliche.

Il ritorno al territorio – la politica fra la gente – è, dunque, la chiave di volta per la ripartenza della sinistra e per costruire un’alleanza democratica, ecologista e socialista, non un generico campo largo. Sul territorio si incrociano questione sociale e questione ambientale, è possibile calarsi nei problemi concreti, rintracciare un ricco capitale umano e sociale, oggi disperso, rassegnato e ininfluente, ma disponibile, se sollecitato, a mobilitarsi e a lottare. Fare politica sul territorio è l’unico modo per sconfiggere la sfiducia, la rassegnazione e l’astensionismo. E per provare a vincere.