Che cosa si può dire della morte di un figlio? Il linguaggio comune sembra franare dinnanzi al lutto più inconcepibile, si ammette spesso all’unanimità che non ci sono parole per esprimere un dolore così pervasivo e annichilente. Nella sua raccolta poetica dall’emblematico titolo Ex madre (Arcipelago itaca, pp. 128, euro 14), Francesca Del Moro riesce invece a raccontare, in versi lucentissimi e affilati come schegge di diamante, l’indicibile perdita, la cui potenza distruttiva mina alle fondamenta l’esistenza di chi resta, e condanna a muoversi in un paesaggio emotivo apocalittico, nel quale la scomparsa di ogni appiglio di senso e la disperazione prendono corpo, consistenza, sopravvento e si riverberano negli «occhi rotti», nei «morsi al cuore», in un «viso che cade/ e si sparge», che «il pianto/ ha quasi cancellato», che «fa spavento».

NEI NOVANTAQUATTRO testi che compongono questo denso volume, scritti nel primo anno successivo alla morte del figlio ventenne, l’autrice consegna generosamente alle lettrici e ai lettori la lucida testimonianza del suo «piccolo orrore privato», che inizia «sull’ultimo tratto di strada» verso casa, trasfigurato dalla luce di un sole «irridente», una mattina di luglio, quando trova ad attenderla «tutti in fila sul marciapiede/ e l’auto della polizia».

Di pagina in pagina prendono forma i contorni della vicenda, e la cesura immedicabile tra un prima vissuto nella grazia di un legame che faceva «solo fiorire» e un dopo in cui si affastellano pensieri di morte, farmaci in quantità per cercare di mantenersi in piedi, medici e psicologi, figure familiari e amicali che in un cerchio di affetto e solidarietà fanno da scudo alla solitudine e tentano di prendersi cura di quella ferita insanabile, giornate di lavoro che scorrono tra automatismi e crisi improvvise di pianto, ricordi che arrivano alle spalle di colpo e sogni in cui sembra possibile ricomporre la pienezza e il calore di un abbraccio, gesti d’amore che si coagulano sul marmo di una tomba e restano appesi alle lettere d’oro di un nome muto, che non risponde più, una lotta continua e costante per scegliere di non soccombere, per attraversare l’inferno e tornare a pieno titolo tra i vivi, tra i felici, tra chi non ha visto azzerare di colpo una parte fondante della propria identità, la «metà del cuore»: «ex mamma», «numero di figli: zero./ L’innocente ferocia/ di un banale questionario./ L’amore mio immenso./ Zero».

Ma c’è anche altro. Una verità atroce che emerge frammentata dal buio pesto e che tende a trascinare con sé, giù al fondo del baratro: «Signora, suo figlio | non ha avuto un malore», «l’estremo gesto, il gesto insano./ Il rapporto di polizia/ si concede qualche cliché letterario», «mio figlio che decide di morire», «la stoffa dell’abito elegante che ha scelto per andarsene», «il tubo del gas».

QUESTA VERITÀ, che la sapiente parola poetica di Del Moro prova a contenere, a definire, a comprendere, coincide con il tema centrale del libro, che non è tanto o solo il canto dolente di una madre che ha perso il proprio figlio, quanto piuttosto la storia di una superstite, di una donna che sopravvive al suicidio della persona più amata, esperendo sulla propria carne viva l’ustione di un’emotività incandescente, impegnata con tutte le sue forze residue in una battaglia intestina tra il desiderio di darsi a sua volta la morte e quello di continuare a esistere, nonostante tutto. La potenza e l’originalità di quest’opera sono da rintracciarsi nella volontà dell’autrice di nominare l’ultimo dei tabù, il non detto tra tutti i non detti, di addomesticarlo per renderlo meno esiziale, attraverso l’uso di un dettato breve, lineare, misurato, che non sbava mai nel facile pietismo né scade nel patetico: incredulità, terrore, sensi di colpa, spaesamento, ma anche un j’accuse disarmante rivolto con rabbia a chi ha ucciso quel figlio amatissimo, l’angoscia disperante di vedere coincidere il volto dell’assassino con il volto della vittima («sì, lui ha ucciso,/ Ha ucciso qualcuno/ per ogni persona/ accorsa quel giorno/ all’incredulo saluto/ sotto la trafittura del sole/ di luglio.», «lui ha cancellato/ le sue braccia, il petto,/ il viso, il sorriso/ che tutto illuminava/ e i suoi occhi di miele»), la dichiarazione di un impossibile perdono («Se potesse sapere/ che non lo perdono») a cui segue l’accettazione della più feroce consapevolezza: «ieri ho detto/ che non lo perdono,/ gli ho giurato odio/ con la sfrontatezza di una bestemmia./ È troppo grande l’amore a volte,/ l’amore è insopportabile».

QUESTI TESTI narrano di un viaggio al confine tra la vita e la morte, di un’esperienza al limite, che nella sua cruda nudità sposta il focus della narrazione dal particolare autobiografico all’universale sentire, che accomuna ogni vivente. Nell’ultima poesia della raccolta, non a caso, è di nuovo l’amore a far capolino, un sentimento nascente di segno diverso, un piccolo miracolo che apre alla speranza di potersi dire ancora vivi, pur nella vulnerabilità, nella fragilità estrema, nella precarietà e nell’ambivalenza che connotano la condizione umana, anzi, esattamente per questo.