«Sai cosa ti dico? Ogni giorno/ c’è chi muore. Ed è soltanto l’inizio./ Ogni giorno, alle pompe funebri, nascono nuove vedove,/ nuovi orfani. Se ne stanno seduti con le mani in grembo,/ tentando di decidere come sarà la loro nuova vita». Sono versi di Louise Glück, e sarebbero perfetti come esergo di Prima che mi sfugga (il cui titolo originale è Avant que j’oublie), romanzo d’esordio di Anne Pauly (L’orma, pp. 152, euro 16) nella magnifica traduzione di Marta Rizzo. E però di starsene seduti con le mani in grembo non se ne parla nemmeno.

LO SA BENE Anne Pauly, non l’autrice, bensì la protagonista del romanzo, la voce narrante, la nuova orfana: «Buongiorno, sono Anne, la figlia di Jean-Piere Pauly, è deceduto l’altroieri». Quando muore qualcuno bisogna subito rimboccarsi le maniche, sbrigare tutte le formalità: levare le tende dall’ospedale («il campeggio della vita»), scegliere la bara («non lo metteremo in una scatola di cartone, ok?»), stabilire la data della sepoltura (morti come se piovesse), dettare le partecipazioni funebri («rientro, a capo, mela +S»), vestire il morto («il suo gilet da pesca multitasche, quel magico accessorio con cui si portava sempre appresso il piccolo bazar delle sue cose»), cercare dei brani da leggere al funerale («una roba dignitosa e modesta, corta, facile da leggere sul calar della sera in un cimitero di provincia»), allestire il rinfresco in ricordo dei suoi gusti («che buoni i mini würstel, vero? sempre meglio di un calcio in culo, no?»), e poi l’impresa titanica di liberarsi degli oggetti che hanno fatto da sfondo alla vita del morto, las cosas come le chiamava Borges, che durano al di là del nostro oblio e non sapranno mai che ce ne siamo andati. Sin dalla prima pagina, il romanzo di Pauly brulica di oggetti. Liste di oggetti che descrivono il morto meglio di qualsiasi parola, e che di lui ci svelano le abitudini, i gusti, le origini, la classe sociale.

«MA COME POTEVO anche solo immaginare di liberarmi di un oggetto qualunque quando avevo appena iniziato a rimettere insieme i pezzi?». C’est fou, la mort, osserva l’autrice, parlando del proprio libro. Folle sì, la morte, ma anche buffa. «Ridere o piangere, questo era il dilemma», commenta la figlia. Un dilemma che la scrittrice risolve mescolando il riso alle lacrime. Basta una rapida carrellata dei personaggi per cogliere la vena tragicomica di Pauly: Anne, la figlia, «una lesbica nullipara perché il patriarcato le impedisce di mettere su famiglia con chi le pare», Jean-Francois, il fratello di Anne, «un maschio alfa che gioca a fare il Peter Pan, Félicie, la fidanzata di Anne, sempre così allegra», il Signor Lecreux, Minotauro delle pompe funebri, André Barrate, il prete «che, da bravo figlio di un fruttivendolo, aveva sentito la chiamata del Signore nella piana dove raccoglieva le patate assieme al fratello», il fantasma della madre di Anne, la cui voce continua a parlare nella segreteria telefonica («della sua voce, nella quale risuonava tutta la gentilezza del mondo, non potevamo fare a meno») e infine lui, il morto, «il papà, enorme, ubriaco fradicio, che con il coltello in mano rincorreva la mamma attorno al tavolo da pranzo (…) il mio catorcio, la mia canaglia senza una gamba, il mio re misantropo, la vecchia carcassa di mio padre».

È UN RITRATTO insieme tenero e feroce, quello del padre, una figura ambivalente e ingombrante. «Il figlio come un filo che deve entrare nella cruna della propria crescita. Il padre come un filo che va sfilato», annota Valerio Magrelli in Geologia di un padre. E cosa succede quando il filo si spezza, quando la morte toglie di mezzo questo ingombro? Succede che la figlia diventa anche lei carcassa: «mi ha scossa un po’, come per far uscire il resto del dolore dalla mia carcassa di mikado». Succede che la morte spariglia. Ecco allora che la nuova orfana deve rimettere insieme i pezzi della sua nuova vita.

Ed è qui che entra in gioco la scrittura, riparatrice del lutto: la genesi di Prima che mi sfugga coincide con la genesi della scrittura di Anne Pauly. È lei stessa a raccontarlo nella bellissima intervista di Johan Faerber per «Diacritik»: sin dall’infanzia, Pauly ha sempre voluto scrivere, ne ha sempre avuto la certezza. A mancarle però è un’autorizzazione in grado di sbloccare, disserrare una lingua rimasta sigillata per anni.
Con la morte del padre, con l’affrancarsi dall’ingombro paterno, la figlia si è finalmente autorizzata a scrivere. Seppellendo il padre, la morte ha disseppellito la scrittura di Anne Pauly. E ora la sua lingua liberata è un flusso impetuoso, incandescente, e chiede di essere trascritta, annotata, immediatamente, prima che le sfugga, prima che cada nell’oblio.