Per il finale Marco Müller ha chiamato Tsui Hark, il mago visionario del cinema che proprio lui ha rivelato in Italia, insieme alla nuova onda asiatica, negli anni Ottanta. Al migliore allievo del leggendario King Hu, il festival di Roma ha consegnato il Maverick Director Award, presentando il suo nuovo (e applauditissimo nella proiezione stampa) Young Detective Dee: Rise of the Sea Dragon 3D. Prequel del rivoluzionario Detective Dee, visto alla Mostra del cinema di Venezia qualche anno fa – e campione di incasso al box office asiatico – per il quale Tsui Hark ha scelto la dimensione «morbida» di un 3D che è, peraltro, già interno al movimento della sua macchina da presa.

Torneremo sul Detective Dee da cucciolo. Oggi invece parliamo di CineMaxxi, la sezione meno «mediatica» nella quale però il festival ha concentrato l’esplorazione artistica di questa edizione. Del resto è la combinazione giusta per un festival/festa: una parte spettacolare alla Hunger Games intrecciata a territori eccentrici. Certo, il dosaggio è delicatissimo soprattutto per il diffuso malinteso sull’idea di «popolare», ma il festival romano ha saputo interpretarne la combinazione in senso alto. E il successo del CineMaxxi, con un pubblico numeroso e agguerrito a ogni proiezione, dimostra che la miscela funziona. Ovviamente ci sono possono essere i cosiddetti «passi falsi» a cui concorrono altri elementi, rapporti con le distribuzioni, politica delle uscite, cinema italiano ecc ecc) – penso all’apertura affidata a L’ultima ruota del carro, o a certe scelte convenzionali di Prospettive doc.

CineMaxxi è stata la sezione di Jonathan Demme, che ha scelto il festival di Müller per l’anteprima mondiale e esclusivissima del suo nuovo Fear of Falling – in sala domani e martedì intanto arriva con un’uscita evento di Microcinema Enzo Avitabile Music Life.

Riscrittura modernizzata dallo humor di Wallace Shawn dell’ibseniano Il costruttore Sollness (che già Beck e Malina stravolsero in chiave di un Frankestein sociale), Fear of falling (assurdamente non in concorso) nasce dalla passione di Demme per la piéce dello stesso Shawn e di André Gregory, e dal suo desiderio di tradurla in una dimensione diversa. Ma anche da un omaggio che il regista di Rachel Getting Married voleva fare al vecchio amico Louis Malle, il quale con Shawn e Gregory ha realizzato i magnifici Vanya sulla 42a strada e La mia cena con André. Nel film di Demme però nulla è «teatrale», nel senso del «teatro filmato», e non solo per l’inquietudine visuale, quasi vertiginosa, della macchina da presa.

Siamo in un cinema grandissimo che celebra il teatro, come sta facendo da qualche film Polanski – compreso questo suo straordinario appena in sala, non lo perdete, Venere in pelliccia. Ed è un lavoro sulla parola che diventa immagine, sul corpo e sulla gamma di gesti invisibili che sfidano l’occhio della macchina da presa (Gregory ha lavorato con Grotowski). Demme la muove lungo il corridoio della casa, luogo del film, moltiplicando nella carrellata tra le porte chiuse segreti e paure che divorano i protagonisti. Poi si sposta sui magnifici attori, sulla distanza che li separa; le loro traiettorie emozionali e narrative sono modulate dal calore delle luci, da una fotografia (di Declan Quinn) che li rende irrealistici, svelando il malessere del loro animo. Bastano pochi morbidi tocchi per passare dall’ottocento al presente, un po’ come i fantasmi che perseguitano il protagonista.

Cosa è la « paura di cadere»? L’incubo dell’architetto Halvard Sollness (Wallace Shawn), che ama essere in cima ma soffre di vertigini. Forse gli fa paura ricordare come è diventato il più famoso eliminando con avida protervia il vecchio maestro (André Gregory). E non contento impedisce al figlio di lui, che ha un vero genio creativo, di mettersi in proprio perché sa che lo supererebbe. Ha un’amante, la segretaria, e una moglie nevrotica e gelosissima. Le cose peggiorano quando arriva Hilda Wangel (meravigliosa Lisa Joyce) solare ventiduenne di esuberante arroganza che sconvolge l’architetto.

C’è un’affinità poetica e politica tra Demme e Gregory e Shawn, due leggende newyorkesi del teatro mondiale moderno, nel pensiero di un teatro e di un’arte aperti al mondo, di cui rovesciano da dentro le pratiche. Nelle «imperfezioni» ricercatissime e nella concezione del set, ma soprattutto per l’uso di un fare-cinema reso indipendente dal ricatto del budget o della produzione. Tutto il mondo diviene possibile nella parola cinematografica, che sposta anche lo sguardo dello spettatore, portandolo a sua volta a ricostruire i sensi e le relazioni.[do action=”citazione”]Girato in una settimana (ma dopo una lunga elaborazione) Fear of falling è forse il più cormaniano dei film di Demme – che a Roma ha ricordato la preziosa lezione del maestro.[/do]

C’è qualcosa di «teatrale» in termini di fisicità espansa e sovraesposta, anche nell’Atlas di Antoine d’Agata, la nuova opera del fotografo «punk» di Magnum, variazione su quel farsi immagine del corpo che è al centro della sua ricerca artistica. É il suo corpo e sono quelli delle persone che ha incontrato nei suoi viaggi, tutti in bilico sul precipizio di una condizione esistenziale estrema. Prostitute, eroinomani, coi quali d’Agata condivide lo spazio dell’inquadratura e l’esperienza febbrile dell’oscurità.

L’atlante è dunque una geografia alla prima persona, scritta sul corpo. Sono gli incontri che d’Agata ha vissuto tra Kiev, Atene, Bangkok, Berlino, Perth, Beirut … «Sono un’ombra nel tuo cuore, e una bugia nella tua anima». Voci di donne, ognuna nella sua lingua, spagnolo, greco, portoghese, thailandese. Gli parlano, raccontano di notti passate a vendersi, del suo corpo sopra il loro, della droga, che ha tanti nomi diversi: «Se non fumi Yuma sei uno schiavo e devi solo obbedire» dicono a Bangkok..

Lui le fissa tra le pareti, negli angoli, in chiaroscuri di luce e ombra barocchi. Sono corpi accartocciati, nudi, devastati. Animali feriti in una stanza d’albergo, sui bordi di una strada, l’eroina sparata in vena nel collo o sui genitali, il sesso bloccato nel frame.

Eppure in questo incessante respiro notturno di ciò che per il pensiero comune è definito «marginalità», nel suono di parole che sono racconti di vita e insieme poesia, c’è una bellezza violenta, una sfida e una continua interrogazione del proprio gesto di «riprendere».

Qualcuna di queste voci lo accusa di essere lì per tenere sempre accesa la telecamera. Ma il fastidio voyeur non appartiene alle immagini di d’Agata. Dentro all’inquadratura lui c’è sempre, e condivide quella dimensione della vita , la fa scorrere sulla sua pelle con tutti i rischi, senza protezione. Soprattutto però ciò che altrove, nella cronaca, appare miserabile perché sotto giudizio, qui diviene commuovente pensiero sul corpo e sul suo spazio nell’inquadratura. Sulla sua possibile verità, che è come una carezza d’amore.